Il convento di San Giusto: il convento del grand-opéra. Prima puntata: Maria Reining, Maria Pedrini, Maria Caniglia.

CanigliaCon i tre ascolti proposti nella presente puntata quello di San Giusto si delinea davvero come il convento del grand-opéra, non solo per la sapienza compositiva dell’autore, ma per la presenza di voci e bacchette che onorano in pari misura lo spirito solenne e magniloquente della partitura e le proporzioni, diciamo di altri tempi, delle strutture musicali. Possiamo definirli lacerti conventuali solo con riferimento alle tecniche di registrazione, non sempre ottimali e in ragione dei tagli, causati non da limiti tecnici degli esecutori (spacciati, magari, per scelte interpretative), ma dalla fragilità del supporto d’incisione. Pur con queste doverose premesse, l’ascoltatore odierno trova in questi direttori e in questi cantanti, e soprattutto nelle tre protagoniste, opulenti di voce non meno che di complessione fisica, altrettanti validi alleati per comprendere la portata di un genere operistico, la cui estetica è spesso frettolosamente liquidata come anacronistica e inutilmente roboante. Spesso anche da parte di soggetti deputati e lautamente stipendiati a “fare cultura” (con tutte le virgolette del caso).

L’atmosfera solenne del preludio, che vede la regina recarsi in preghiera sulla tomba del suocero, introduce il monologo di Elisabetta, in cui la meditazione sulla caducità dei beni terreni si alterna al doloroso ricordo della felicità perduta. La medesima dicotomia tra lacerante rimpianto e sublimazione del sentimento amoroso segna il successivo duetto e prepara la catastrofe conclusiva, con l’apparizione ex machina (anzi ex sepulcro) dell’Imperatore a ribadire l’impossibilità di una soluzione del dramma, che non contempli un intervento estraneo al conflitto familiare e dinastico che l’ha determinato.

La preservazione dell’atto integrale permette di cogliere tanto in Serafin (alla testa dei complessi del San Carlo) quanto in Previtali (con l’Orchestra Sinfonica della RAI) la successione dei diversi momenti del dramma, e questo sia per le dinamiche adottate (maestosa l’introduzione, patetico il duetto d’amore, bruciante l’epilogo con l’irruzione dell’autorità politica e religiosa) sia per il differente colore orchestrale che caratterizza ciascuna scena. Direzioni come queste, e a maggior ragione come quella di Bruno Walter, che avvezzo a Wagner e Strauss accompagna come meglio non si potrebbe l’addio degli infelici amanti, provano che la grandezza di una bacchetta può trovare ampio risalto anche in un contesto differente da quello sinfonico.
Le voci, pur non prive di difetti (qualche suono “tirato” in alto per Maria Caniglia, qualche ripresa di fiato, che spezza un poco arbitrariamente la linea musicale nel caso di Maria Pedrini), sfoggiano una qualità e un’opulenza in zona medio-grave (essenziali tanto nell’aria quanto nelle frasi cruciali del duetto d’amore) che rispondono perfettamente alle richieste del personaggio e dell’estetica del grand-opéra. A questo va aggiunto, soprattutto nel caso della Caniglia, una dizione davvero esemplare, che risalta in particolare in frasi come “I fior del paradiso a lui sorrideranno” o “Ma lassù ci vedremo in un mondo migliore,” dove risplende anche il timbro davvero sontuoso del soprano abruzzese, essendo la frase di scrittura marcatamente centrale. Ricordiamo en passant, un occhio alla mestissima cronaca di questi ultimi giorni, che la Caniglia fu protagonista, nel 1937, di una ripresa di Africana all’Opera di Roma, al fianco di Beniamino Gigli, Mario Basiola e Licia Albanese, direttore Tullio Serafin. Di sicuro nessuno avvertì all’epoca l’esigenza di derubricare Meyerbeer quale autore minore e neppure di nicchia.
Meno incline a un fraseggio di gusto italiano, più sorvegliata e sempre dolcissima nell’emissione, capace di svettare con assoluta facilità in acuto, ad es. sul si naturale di “il sospirato ben che fugge in terra ognor” è l’Elisabetta di Maria Reining: al fianco del Carlo di voce forse non gagliarda, ma nobile e squillante di Todor Mazaroff, la cantante viennese, straussiana e wagneriana di assoluto riferimento per le più grandi bacchette di area mitteleuropea e non solo, dimostra come le esigenze del canto siano le medesime a ogni latitudine e in ogni repertorio, atteso che il legato qui speso per Verdi è il medesimo altrove esibito negli autori per cui la Reining è celebrata ancor oggi. Delle “tre Marie” proposte in questa puntata la Reining è la più moderna nel gusto, ma non per questo la meno impressionante, anche per la distanza che la separa (al pari delle colleghe italiche) da più recenti soprani lirici, quando non lirico leggeri, spacciati per il non plus ultra della raffinatezza e della cosiddetta interpretazione. Ma di questo avremo occasione di riparlare nelle prossime puntate.

 

ReiningGli ascolti

Verdi – Don Carlo

Atto V

Tu che le vanità…E’ dessa! Un detto, un sol…Sì, per sempre!

Maria Reining, Todor Mazaroff, Herbert Alsen e Carlo Bisutti – dir. Bruno Walter (1937)

Maria Pedrini, Mirto Picchi, Italo Tajo e Giulio Neri – dir. Tullio Serafin (1950)

Maria Caniglia, Mirto Picchi, Nicola Rossi Lemeni, Giulio Neri e Albino Gaggi – dir. Fernando Previtali (1951)

Un pensiero su “Il convento di San Giusto: il convento del grand-opéra. Prima puntata: Maria Reining, Maria Pedrini, Maria Caniglia.

  1. Sono rimasto davvero impressionato dal bellissimo fraseggio della Caniglia, è vero un po’ tirata in alto, ma perfettamente consapevole di ciò che sta cantando e di ciò che prova il personaggio da lei interpretato. Peccato per lo scellerato taglio di Previtali nel duetto!

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