Ha avuto in Modena, con la produzione di Simon Boccanegra proposta al Teatro Comunale “Luciano Pavarotti”, un singolare prodromo quella festa del perdono e della misericordia, annunciata dal Santo Padre per questo fine settimana. Al pari del rito cattolico della confessione e dell’assoluzione dai peccati, questa manifestazione collettiva, punteggiata da voci di giubilo, disguidi tecnici (un sipario incagliato alla scena del Palazzo degli Abati, quinte semoventi a scena aperta) e suonerie di telefoni cellulari, si è conclusa con un trionfo generale e generalizzato, in cui gli apporti dei singoli sono passati un po’ in secondo piano davanti al grido di “Viva Verdi”, che con entusiasmo quasi risorgimentale ha siglato la passerella degli applausi finali. Ma alcuni dettagli vanno riferiti.
Il primo dettaglio è anche il maggior mistero della pomeridiana del 23 marzo. In una sala di contenute dimensioni come quella del Comunale di Modena le voci dei solisti risultavano affette da un curioso effetto di riverbero, quasi un’eco. Effetto attenuato, e di molto, nel corso della seconda parte dello spettacolo, e che si manifestava soprattutto nei momenti, non infrequenti, in cui i cantanti erano chiamati a esibirsi al proscenio. Altra caratteristica singolare, almeno per una sala all’italiana, è il fatto che le voci sembrassero in palese difficoltà ad espandersi nella sala stessa. Il fenomeno si percepiva sopratutto con riferimento agli esecutori maschili, in primis Paolo, Alexey Bogdanchikov (voce e tecnica da comprimario nella profonda provincia ex bolscevica) e Fiesco, Carlo Colombara, quasi impercettibile nei passaggi in cui il basso è chiamato a fare quel che si dice in gergo il “pedale” agli altri solisti, ossia a cantare in zona medio grave. Per il resto la prova di Colombara si caratterizzava per la qualità bitumata del suono e per la salita, diciamo problematica, agli acuti (ad es. il fa di “già CAde” al duetto conclusivo con il protagonista). Di maggiore spessore lo strumento di Fabio Sartori, che è risultato di fatto l’unica voce “importante” dello spettacolo. Purtroppo nella zona del passaggio superiore compaiono, quando il tenore si sforza di cantare piano e legato, suoni di incerta natura e periclitante tenuta.
Protagonista femminile era Davinia Rodriguez, compagna del direttore d’orchestra Riccardo Frizza e reduce, quale Lucrezia Contarini (ruolo scritto per Marianna Barbieri Nini, prima lady Macbeth) da una trionfale produzione dei Foscari al Theater an der Wien al fianco di Placido Domingo. Che la parte di Amelia possa essere affidata a un soprano lirico è un’opinione, suffragata solo dall’avere Mirella Freni a più riprese cantato la mentita erede di casa Grimaldi. La Freni vantava in ogni caso un’ampiezza e una solidità professionale ignota a quelli che oggi passano per soprani lirici e anche lirico spinti. Quanto alla signora Rodriguez, il suo impiego ideale sarebbe nel repertorio della zarzuela o in una produzione di Don Giovanni da cantarsi a Malaga o Granada. Ovviamente come Zerlina, perché la voce è quella della soubrette, con la precisazione che la prima ottava semplicemente non esiste e gli acuti risultano ora fissi, ora fischianti, spesso calanti e sistematicamente urlati. La presenza scenica si limita, com’è ormai tradizionale, alla bella presenza, quella richiesta a qualunque commessa del negozio di una griffe o hostess che dir si voglia.
Per descrivere e rendere giustizia alla performance di Leo Nucci occorrerebbe una penna ben più valente di quella, che modesta verga queste poche righe. In estrema sintesi si potrebbe dire che la decisione di ritirarsi dal Trovatore scaligero appare sensata e, semmai, anche troppo circostanziata per le presenti condizioni del baritono. In una parte che richiede in pari misura magniloquenza e varietà di accento abbiamo udito una voce, divenuta con gli anni se possibile ancor più legnosa, in debito d’ossigeno quando si tratta di tenuta dei suoni (sarebbe persino esagerato parlare di legato), incline ai portamenti più esasperati, incapace di una dinamica che vada oltre l’alternanza di forte e fortissimo. Il forte e il fortissimo, peraltro, di uno strumento pesantemente attutito, oltre che accorciato, rispetto solo a pochi anni fa. Tralasciamo volentieri la scelta di restituire in maniera pesantemente naturalistica, con gestualità da teatro delle marionette, l’agonia del Doge, moribondo per il veleno.
In buca Francesco Ivan Ciampa ha cavato dall’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna un suono compatto, anche se non sempre all’altezza del momento drammatico (singolarmente inerte il finale del primo atto), faticando non poco a tenere assieme buca, solisti e coro (Teatro Municipale di Piacenza – rivedibile, per essere buoni). Oleografico quanto spartano lo spettacolo (pensato per gli spazi, vogliamo immaginare più ampi e funzionali, del Teatro Verdi di Salerno) firmato da Riccardo Canessa, dai cambi scena singolarmente lunghi per la semplicità della concezione scenica. Solida routine, funestata da qualche soluzione inutilmente didascalica (i coristi che accolgono l’esortazione alla concordia da parte del Doge scambiandosi il segno di pace di eucaristica memoria).