Scarsa fortuna arrise al dramma che Alphonse Daudet presentò al parigino Théâtre du Vaudeville nel 1872, traendolo da una sua omonima novella compresa nella raccolta “Lettres de mon moulin” (1869). La pièce, scritta in poche settimane (andò in scena come ripiego per una produzione cancellata), non incontrò il favore del pubblico (ventuno rappresentazioni) e tanto meno quello della critica, perplessa anche circa il valore delle musiche di scena composte da Georges Bizet su commissione dell’impresario Léon Carvalho. Del pari limitato fu il successo dell’opera composta da Francesco Cilea, andata in scena nel 1897 al Teatro Lirico di Milano, con un giovane Enrico Caruso nella parte di Federico: malgrado numerose revisioni da parte dell’autore, il titolo stentò ad affermarsi , e nonostante le riprese proposte negli anni Trenta e Quaranta (molte delle quali con Tito Schipa nella parte del protagonista), del dramma lirico di Leopoldo Marenco entrò in repertorio esclusivamente il monologo del tenore (il celebre “Lamento di Federico”) e, in misura più contenuta, il drammatico assolo del mezzosoprano Rosa Mamai, “Esser madre è un inferno”, che precede e prepara il fatale epilogo.
Novella, dramma e opera narrano la vicenda di un giovane, figlio di contadini agiati, che si invaghisce di una fanciulla della città di Arles. A nozze ormai fissate, si viene a sapere che la ragazza ha una relazione con un altro uomo. Il matrimonio va a monte, ma il giovane non può dimenticare l’amata e si suicida gettandosi da una finestra. Il racconto sviluppa, in poche pagine, un letterale idillio: la visione di una fattoria del sud della Francia, dominata da un silenzio e da una calma innaturali, suscita la curiosità del narratore, che, parlando con la gente del luogo, ricostruisce la vicenda che ha stravolto il placido microcosmo campestre. Il giovane Jan, invaghitosi di una innominata e invisibile Arlesiana (personaggio assente ma cruciale, al punto che, nella lingua francese, il termine “arlésienne” è divenuto antonomastico per figure di questo tipo), una fanciulla “tutta velluto e merletti”, ottiene dal padre il permesso di sposarla, ma un guardiano di cavalli dimostra di poter vantare un diritto di precedenza, esibendo a questo scopo alcune lettere d’amore scritte dalla ragazza. La rivelazione getta il giovane nello sconforto: Jan tenta di reagire, buttandosi a capofitto nel lavoro, ma il ricordo ossessivo dell’amante perduta lo spinge progressivamente alla follia. Commosso per l’affetto testimoniatogli dai genitori, che sarebbero disposti ad accettare una nuora indegna solo per la felicità del figlio, Jan finge di avere dimenticato l’Arlesiana e, all’alba del giorno che segue la festa di sant’Eligio, si toglie la vita. È la madre ad assistere, dalla stanza attigua, al suicidio del giovane e a scoprirne il cadavere: sulla disperazione della donna, mater dolorosa in versione provenzale, si chiude la novella, in cui però il ruolo principale spetta al padre, padron Estève, che, annientato dal dolore, indosserà i vestiti del figlio, senza che nessuno possa convincerlo a toglierseli.
La madre (senza nome) e il fratellino di Jan (indicato semplicemente come “Cadet”, il figlio minore) sono figure di secondo piano, mentre nella pièce Rose Mamaï e il suo secondogenito hanno un ruolo fondamentale. Come osserva il vecchio pastore Balthazar, “quello che da molto tempo manca a questa casa, è un uomo capace di governarla. Ci sono delle donne, dei bambini, dei vecchi; manca il padrone”. Rose è vedova, abita con il suocero, Francet, e i due figli avuti dal defunto marito, il ventenne Fréderi e un adolescente con quelli che oggi definiremmo problemi di apprendimento, e che tutti chiamano “l’Innocent” per il suo disarmante candore. C’è poi il capitano Marc, fratello di Rose, un marinaio vanaglorioso e non troppo sveglio (incautamente incaricato di prendere informazioni sul conto dell’Arlesiana), e appunto Balthazar, l’unico in casa a dedicare un po’ di tempo e, soprattutto, affetto al piccolo Innocent, il cui ottundimento si rivela peraltro, fin dalle prime scene del dramma, in qualche modo soggetto a una sorta di regressione. Ed è proprio Balthazar il primo ad accorgersi di questo progressivo “risveglio”: il piccolo mostra poco a poco di accorgersi dell’esaltazione dapprima, e poi della tristezza mortale, cui va soggetto Fréderi, il quale, seguendo un percorso speculare a quello del fratellino, perde man mano ogni contatto con la realtà quotidiana e letteralmente si annulla nella passione per la sua Arlesiana. Il segno definitivo di questa complementarietà dei fratelli Mamaï è dato dalla penultima scena del dramma, in cui l’ormai ex Innocent, rassicurando la madre circa la sua ritrovata lucidità, la prega di chiamarlo con il suo nome, Janet, diminutivo di Jan, nome che nella novella spettava all’infelice suicida. Ed è proprio un presagio di morte quello che Rose avverte nel momento in cui realizza l’insperata felicità di avere ritrovato il suo secondogenito: “Non ci sono più innocenti in casa! Se questo portasse sfortuna… Ah! Che cosa dico? Non merito questa grande gioia che mi capita… No! No! Non è possibile. Dio non mi ha restituito un figlio per togliermene un altro”. Tutta la pièce è del resto caratterizzata dal tema del doppio, del passato che ritorna e, ovviamente, dell’amore infelice, che la vita potrà (oppure no) fare dimenticare.
C’è l’amore disperato e ossessivo di Fréderi per l’Arlesiana, ma anche l’affetto candido e innocente – e, in quanto tale, incapace di sopire l’autentica passione distruttrice – di Vivette, figlioccia di Rose, per Fréderi, e ancora l’antica, quasi del tutto sopita attrazione tra il pastore Balthazar e la vecchia Renaude, nonna di Vivette, che nell’ultimo atto rievocano un amore per mutuo consenso dimenticato (“infine, ora, la nostra pena è finita e possiamo guardarci in faccia senza arrossire”). Ma c’è anche il trasporto sensuale del guardiano di cavalli Mitifio nei confronti dell’Arlesiana (fanciulla da lui disprezzata e adorata al tempo stesso) e, soprattutto, l’amore di Rose per il figlio maggiore, a tal punto intenso da sconfinare nella pulsione incestuosa (nel secondo atto, la donna riflette sulla necessità di trovare una donna capace di far dimenticare a Fréderi la maledetta fanciulla di città: “Se toccasse a me, ci penserei io…”) e in quella suicida (nel terzo atto, quando Fréderi si è ormai barricato nella camera fatale: “Aprimi! Aprimi! Figlio mio! Portami con te, portami con te nella morte!”). Questa figura materna totalizzante, quasi crudele e decisamente priva di freni inibitori nel suo attaccamento per la prole, trova la sua definizione migliore nel grande monologo dell’ultima scena, che il librettista raccolse, per buona parte, quasi letteralmente: “Essere madre, è l’inferno. Questo ragazzo, sono quasi morta nel metterlo al mondo. Poi è stato a lungo malato (…) Quel che ho penato, le notti in bianco che ho passato, le rughe della mia fronte possono dirlo. E ora che ne ho fatto un uomo, ora che è grande, e così bello, e così puro, non pensa più che a sottrarsi alla vita, e per difenderlo da lui stesso, sono costretta a vegliare qui, davanti alla sua porta, come quando era piccolo piccolo. Ah, davvero, ci sono delle volte che Dio non è ragionevole… Ma è mia, la tua vita, cattivo ragazzo. Te l’ho data, te l’ho data venti volte. È stata presa giorno per giorno dalla mia; sai che ci è voluta tutta la mia giovinezza per fare i tuoi vent’anni? E ora vorresti distruggere la mia opera! È vero che anche lui soffre tanto, povero ragazzo. Il suo orrendo amore lo tiene ancora prigioniero, e sono stata folle a pensare che qualcuno potesse guarirlo. Ha il male di sua madre. I cuori come i nostri non sanno amare che una volta sola. (…) Vuole morire. Come sono ingrati i figli! Anch’io, quando il mio povero marito è morto e mi teneva le mani mentre se ne andava, avevo voglia di partire con lui… Ma c’eri tu, non capivi bene che cosa succedeva, ma avevi paura e piangevi. Ah! Da quel tuo primo pianto ho sentito che la mia vita non mi apparteneva, e che non avevo il diritto di partire… Allora ti ho preso fra le braccia, ti ho sorriso, ho cantato per farti addormentare, il cuore gonfio di lacrime, e sebbene vedova per sempre, appena ho potuto, ho lasciato le mie cuffie nere per non rattristare i tuoi occhi di bambino. Quello che ho fatto per lui, potrebbe farlo per me ora… Povere madri! Siamo da compiangere. Diamo tutto, e a noi non viene restituito nulla. Siamo le amanti che si abbandonano sempre”. Una confessione straziante che, nel libretto, è sigillata da un’evocazione mariana: “rammentati Signor, la Madre Tua, ai piedi della Croce prosternata”. Come tutte le madri del melodramma italiano, anche Rosa Mamai non esita, quando lo ritiene necessario, a rammentare il catechismo all’Altissimo.
Altro elemento cruciale del dramma, e di conseguenza dell’opera, e che in parte può spiegarne le scarse fortune sceniche, è la preponderanza assegnata al racconto rispetto all’azione. Tutti gli avvenimenti più importanti, dall’innamoramento del protagonista al suo suicidio, non sono rappresentati, bensì narrati dai personaggi o affidati all’intuizione dello spettatore, mentre il vecchio pastore prefigura, con il racconto della capra che “col lupo lottò tutta la notte” e “quando il sol spuntò, dimise a terra il corpo sanguinoso”, il destino di Federico, che, allo stesso modo, lotta disperatamente contro un avversario più potente di lui e, all’alba, pone fine alla propria battaglia con un salto dalla finestra. Ancora, ascoltando il fratellino che, nel dormiveglia, ripete la storia udita da Baldassarre, Federico ne invidia il riposo, quel riposo che a lui è negato dal ricordo perturbante dell’Arlesiana. Infine, nel terzo atto, il racconto di Metifio, che espone a Baldassarre il progetto di rapire, quella notte stessa, la fatale Arlesiana, scatena la reazione violenta di Federico e provoca l’estrema crisi, che non potrà che risolversi con la morte. Come nel dramma un poco sentenziosamente fa osservare Balthazar al capitano Marc: “Guarda da quella finestra, vedrai se non si muore d’amore”. L’inferno della vita, l’inferno dell’amore: è questa la faccia nascosta (neppure tanto, in fondo) de “L’Arlesiana”, in cui la fatalità più cupa riveste i toni della rapsodia bucolica, mentre i cori agresti del primo e del terzo atto e l’ingannevole serenità del finale secondo pongono in evidenza, per contrasto, la disperazione del tenore e l’angoscia del mezzosoprano.
È naturale che un’opera come questa, in cui l’essenzialità è legge suprema (durata complessiva novanta minuti, come il Wozzeck), non possa sperare giustizia che da solisti di primissimo piano. Gli ascolti che proponiamo ne costituiscono una possibile esemplificazione.
Gli ascolti
Cilea – L’Arlesiana
Atto I
Come due tizzi accesi – Antenore Reali (1944), Giuseppe Taddei (1949)
Atto II
E’ la solita storia del pastore – Giacomo Lauri-Volpi (1922), Tito Schipa (1927), Beniamino Gigli (1936), Ferruccio Tagliavini (1953), Carlo Bergonzi (1982)
Atto III
Esser madre è un inferno – Claudia Muzio (1935), Ebe Stignani (1950)
Forse potremmo definire L’ Arlesiana come una sorta di “Carmen” senza Carmen, sostituita dalla mamma di Don José. Provate a immaginare…
Con la differenza che Carmen è dichiaratamente una poco di buono, mentre l’Arlesiana passa per una fanciulla di specchiata moralità. Specchiata moralità un par de **** tanto per citare l’immortale capolavoro di Pietro Germi! 😀
Conciso, esaustivo. Bravo Tamburini.
Grandissima, come sempre e come solo puo’
interpretare chi prima di tutto e’ in grado di ben cantare,
la grandissima Gianna Pederzini. Un vanto del canto.
E non e’ che le mancassero le attrattive, al di la’
della pochezza del mezzo. Ciao.
Diciamoci la verità, l’opera, nel suo complesso, è proprio bruttina…..
Che strano… per me è meravigliosa! E’ l’unico tentativo italiano dell’Ottocento di comporre un dramma psicologico. Non ha fortuna perché la si vuole vedere come opera verista, ma non lo è affatto!
sw non fosse per il lamento di Federico.quest’opera sarebbe ormai completamente dimenticata…
Lo stesso si può dire di tanti altri titoli (Donizetti e Rossini in primis…sopravvissuti solo per un brano, una melodia riciclata oppure solo la fama di qualche interprete). Ma fino a poco tempo fa quasi tutto il teatro musicale barocco era dimenticato (chi mai avrebbe ipotizzato 40 anni fa che il teatro di Vivaldi sarebbe mai stato riproposto, inciso, studiato). Corsi e ricorsi storici, evoluzione di gusti e sensibilità, maggior o minore corrispondenza a certi concetti di modernità… Oggi la “giovane scuola” è quasi del tutto sparita dai cartelloni – non è colpa di nessuno, semplicemente non suscita l’interesse del Rossini serio o dell’opera barocca (diverso il caso di atteggiamenti persecutori, quelli di chi attribuisce giudizi di merito sul genere, confondendo ideologia e storia musicale, senza risparmiarsi in un certo snobismo) – ma non per “colpa” degli stessi titoli o della loro qualità…ritenuta solitamente molto bassa, anche se non trovo che sia tanto più ignobile di certe opere di Donizetti o Mercadante o Pacini etc… (non per polemizzare, ma neppure credo che l’Arlesiana sia inferiore al Verdi degli anni di galera).
Sono completamente d’accordo con Duprez; trovo che la qualità della musica verista in generale spazia dal capolavoro al decisamente brutto dipende da più fattori. Arlesiana non è un capolavoro ma, personalmente non la trovo così brutta, dipende molto dagli interpreti, forse più che altre opere: gli esempi postati di”Esser madre è un inferno” cantati da Claudia Muzio ed Ebe Stignani (Divinamente, peraltro) dimostrano che il lamento di Federico non è l’unica pagina interessante dell’opera.
Bravo Tamburini, davvero bravo…..
Aspettavo un articolo sul tema da quando il mese scorso ho acquistato all’Expert per 6.99 la registrazione con Tagliavini e la Tassinari… il tutto con mio gran stupore visto il luogo, il prezzo e la scarsa fama dell’opera!
Dopo 3 ascolto di cui 2 distratti ho pensato che abbia dei meriti, sia godibile e per nulla noiosa e la storia è particolare e diversa dal solito. Certo non mi ha detto poi tanto ad esser sincero… una curiosità interessante, ma non mi pare proprio un capolavoro. Ogni tanto sarebbe curioso allestirla. Comunque non sarebbe proprio nelle registrazioni che ascolterei spesso…ecco credo sia un’opera che anche con cantanti di altissimo livello non abbia la stessa tenuta di altri lavori.
ll paragone con Donizetti, sempre troppo oltraggiato, è infelice. A mio gusto, di parte in questo caso, Donizetti è infinitamente più straordinario
certo! anche per me Donizetti e’ stato un colosso. Purtroppo tradito, come tanti professionisti dal suo culo d pietra e come tanti altri professionisti da altra parte spesso non molle
Non credo molto alle classifiche delle opere in base a criteri estetici (il bello e il brutto rispondono a gusti personali), però francamente non trovo motivi oggettivi per cui Arlesiana, Chenier o Fedora siano più “brutte” di Giovanna d’Arco, Ciro in Babilonia, Maria de Rudenz e qualche decina di titoli del Donizetti più o meno minore… Mi piace molto Donizetti – anche quando “mena la polenta” (ossia in un buon 70% della sua produzione) – ma non trovo questa superiorità assoluta rispetto alla “giovane scuola”. Certo son generi diversi in cui la voce è trattata in modo differente (per la naturale evoluzione musicale), ma non si sta confrontando la Passione secondo Matteo con “Daje de tacco, daje de punta, quant’è bona la sora Assunta”, come pare – a volte – quando si leggono condanne inappellabile ai titoli veristi. Cosa avrebbe di “brutto” l’Arlesiana? Rispetto…che ne so…a Matilde di Shabran?
Duprez sono d’accordo sulla questione della soggettività dei gusti. Arlesiana non mi pare, ma non sono un musicologo semmai un ascoltatore che cerca di imparare e provvisto di rudimenti del canto, che sia sullo stesso piano di Chenier o Fedora… almeno secondo me manca quel quid, così come manca al Ciro in Babilonia, dove però si trovano spunti bellissimi e fantasiosi di un Rossini acerbo, ma pur sempre Rossini.
Per quanto mi riguarda non provo ostilità verso il verismo e la giovane scuola, anzi pian piano mi voglio avvicinare a questo mondo diverso da quello di primo Ottocento che è rimane comunque il mio prediletto per sensibilità.
Penso sia un provocazione quella sulla Matilde di Shabran ( ma anche su Maria di Rudenz) perché ha una ricchezza musicale davvero impressionante anche per Rossini, è squisitamente geniale e brillante. So ad esempio che Gossett che è un personaggio autorevole la considera al livello delle opere serie rossiniane. Poi si può discutere sulla sua autorevolezza, ma mi pare che sia autoevidente il valore della Matilde. Tralascio che potrei ascoltarla all’infinito perché quello sì è puro gusto personale, così come non sopporto Madama Butterfly ma non mi sognerei di dire che è un aborto pucciniano
se posso dire la mia guardando e soprattutto ascoltando Rossini non trovo mai “il menar polenta” di Donizetti o quello di Verdi (la cui farina è anche “camolata” per dirla alla milanese). Sul Verismo o meglio su “musica proibita” Arlesiana sa di poco questo è il suo limite, temo, e ciò ad onta del fatto che il finale abbia un rilevante taglio drammatico.
Però, caro Ninia, i prodotti peggio riusciti di Gioachino non sono i giovanili Ciro o le farse, ma i titoli di mezzo carattere, ovvero Matilde, Gazza e Torvaldo. La zeppa non è la musica, ma la storia, che non tiene e se la Gazza può essere letta e digerita (con qualche basico aiutino) quale parodia (in senso greco) dell’opera seria di cui contiene tutti i topoi la Matilde proprio non si digerisce, anzi come per l’aglio “si ripresenta”.
Giudizio personale e poi sarà che l’ho conosciuta in età avanzata, ma non mi entra in testa, salvo il rondò finale perché inciso da Lella Cuberli.
Quanto alla Butterfly sino ai quarant’anni la giapponesina innamorata e troppo scema per essere credibile proprio non la reggevo, poi è scattato qualche cosa e Butterfly è diventata un titolo facile, scorrevole, digeribile. Ti posso anche dire che cosa è stato il contestuale ascolto del disco di Karayan ed il live napoletano dell’Olivero. La giapponesina è diventata dolce, innamorata, vittima accompagnata da uno strumentale unico e grandioso. A Milano si dice che con il tempo e con la paglia maturino anche le nespole (ovvero le sorbe!!!)
Non penso che l’Arlesiana sia un’opera “bruttina”. Senza essere un capolavoro ( ma di capolavori ce ne sono pochi ) la trovo scritta con eleganza e tutt’altro che priva d’interesse. Certo, non è un capolavoro e ci sono molte opere della Giovane Scuola ( anche tra quelle dimenticate ) di valore superiore. Tuttavia personalmente – piuttosto che assistere all’ennesima rappresentazione di capolavori visti e stravisti – troverei più stimolante vedermi un’Arlesiana. Quanto all’opinione espressa da Duprez secondo cui i titoli della Giovane Scuola non vengono oggi rappresentati perché susciterebbero poco interesse osserverei che ci sono stati molti casi che hanno dimostrato il contrario. Ad esempio: La Cena delle Beffe a Zurigo è stata ripesa con vasto successo per ben 3 stagioni , le riprese di Iris a Roma con Gavazzeni e più recentemente ( 1997 ) sotto la direzione di Gelmetti sono stati successi clamorosi. Non parliamo di Fedora alla Scala e altrove. Le ripese di M.me Sans Gene ( quella di Gavazzeni e più recentemente con la Freni ) sono stati indiscutibili successi. Dunque se questi titoli vengono ripresi poco non è “colpa” del pubblico. Lasciamo poi perdere il successo costante e amplissimo dei titoli Giovane Scuola rimasti in repertorio ( Puccini, Adriana, Chénier, Cavalleria, etc. ). Infine: il pubblico, una parte sempre più vasta del quale purtroppo incline a rivedere solo lo stravisto, andrebbe anche stimolato con titoli desueti e proposte non imbandite con il scolo scopo di fare cassa. Infine: il recentissimo allestimento di Arlesiana a Jesi ha ottenuto un successo straordinario. Ergo: con molta probabilità non vedremo più in circolazione questo tiolo…
La Cena a Bologna con Cupido e la Madame sans gene con la Freni a Modena viste con te sono tra i (pochi) ricordi operistici più belli che ho.
cena delle beffe, amore dei tre re, francesca, iris con tutti loro difetti me le vedrei subito, ma dove sono la Caniglia, Pinza, l’0livero, la Ligabue e magari la Gencer cui invano e reiteratamente Serafin chiese di fare Iris……
Giusta osservazione. Inoltre oggi avremmo anche il rischio di vederle stravolte da regie demenziali e/o scadenti ( come l’Isabeau 2011 a Braunscheig ). Sovente le opere della Giovane Scuola sono purtroppo assai impervie per i cantanti ( alcune come Cena delle Beffe e Piccolo Marat al limite dell’assassinio soprattutto per il tenore ) . Comunque il problema degli interpreti – come insegna il Corriere della Grisi – è comune a tutti i repertori. O si chiude bottega ( come qualcuno , ma non io , auspica ) o si accetta l’azzardo. Certo che il problema è aperto: la riproposta di un titolo desueto fatta male potrebbe essere controproducente per il titolo stesso.
ahahha, bella l’osservazione finale. una perla di verità!
Non c’è nulla di male a “menar la polenta”…e se Rossini non menava quella, menava il torrone…insomma, in un periodo in cui l’operista era un mestiere (e la produzione di titoli era per necessità, abbondante e spedita), è chiaro che all’arte spesso si affianca – a volte in modo prevalente – il buon artigianato. Artigianato praticato da tutti i compositori italiani (dove l’opera era un vero e proprio lavoro e i teatri pretendevano decine e decine di titoli nuovi a stagione) almeno sino al tardo Verdi: poi le cose cambiano…ma con cataloghi di 30, 40 o 50 titoli è naturale che la polenta o il torrone venisse menato molto spesso. e lo stesso accadde in Francia col grand opéra e in Inghilterra con l’opera seria. Certo cambiavano le convenzioni e se Donizetti risparmiava in fantasia limitandosi a mettere in musica storie improbabili senza grossi apporofondimenti musicali, Rossini riciclava se stesso oltre il lecito (persino per quei tempi) riproponendo idee musicali e interi numeri, e Verdi si lasciava andare a rozzezze da banda… Ma anche Haendel o Vivaldi non erano immuni da ricicli (in particolare il secondo, per cui Stravinskij disse che Vivaldi aveva in realtà scritto un solo concerto riarrangiato 400 volte…). Nulla di male ovviamente…e ognuno di noi si scandalizzerà nel leggere “accuse” al proprio beniamino (così si vorrà escludere Rossini, come fa Donzelli o Donizetti…). In realtà non sono critiche o denigrazioni, perché ci vuole dell’arte anche a “menar la polenta (o il torrone)” così come a riciclare la stessa idea musicale 5 o 6 volte riuscendo a farla percepire come nuova. Questo per dire che certo rifiuto per la giovane scuole deriva unicamente da gusto personale o suggestione collettiva (quando si passa una vita a sentire dire che Fedora fa schifo…allora farà schifo per forza). Ma davvero non credo vi sia così tanta distanza tra Fedora o Maria de Rudenz (anzi…forse la prima ha avuto più successo nel grande pubblico).
Ha ragione chi dice che non sono capolavori e che di capolavori ce ne sono ben pochi…
Non concordo con Donzelli, invece, su Rossini: a scuola insegnavano – per spiegare la logica – che “tutti gli uomini sono mortali – Socrate è un uomo – Socrate è mortale”….lo stesso, ricordo a me stesso, vale per Rossini. Come tutti i compositori ha avuto un’evoluzione, e come tutti non ha sfornato solo ciambelle con il buco… Non credo che l’opera semiseria sia di per sé più debole: c’è molta differenza – checché ne scriva Gossett – tra Gazza e Matilde o Torvaldo. E non solo per via del libretto.
Sulla riproposizione del verismo e della giovane scuola, invece, il discorso è più ampio: ci sono stati molti tentativi in tal senso (alcuni premiati dal successo, altri passati solo in realtà periferiche) e forse ha più contato la curiosità per questo repertorio che la reale esigenza dello stesso. E’ un fatto però che nonostante le “riesumazioni” citate, Cena delle beffe, Madame Sans-Gene o Siberia non sono certo ritornate in repertorio (al contrario di molti titoli barocchi, ad esempio). E’ un fatto che va tenuto in considerazione e non va giudicato (bene o male), ma solo preso per quel che è: l’interesse per quel repertorio resta scarso (a prescindere dai singoli esiti di botteghino).
Duprez, concordo quasi su tutto. Permettimi di eccepire che se si riprende Iris, Cena delle Beffe o M.me Sams-Gene e il pubblico risponde favorevolemente ( talvolta, come nel caso delle Iris romane, clamorosamente ) il fatto che non rientrino in repertorio non dipende ovviamente dal pubblico medesimo ma da chi predispone i cartelloni. L’interesse per il repertorio della Giovane Scuola resta a mio parere altissimo: i capolavori della Giovane Scuola fanno pienoni che i capolavori del periodo barocco nemmeno si sognano ( e non voglio dire che ciò significhi che gli uni valgano più degli altri: oviamente non lo credo ma non è questo il punto ). Parlando di favore del pubblico: prova a riempire l’Arena con Rodelinda o con Il Ritorno di Ulisse in Patria. Con Bohème o anche solo con Chénier ce la fai benissimo. Serebbe questo lo scarso interesse del pubblico per la Giovane Scuola ( il cui massimo esponente è Puccini, cioè il secondo autore d’opera più rappresentato al mondo dopo Verdi ) ? Rossini sta al quinto posto, Handel all’ottavo. Ripeto: non parlo di valori ma di favore del pubblico. Ovviamente le opere meno note della Giovane Scuola hanno riscontro minore anche di pubblico, ma non sempre. Valgano i casi che ho citato sopra.
Come no Gianmario…i teatri di tutto il mondo allestiscono Iris e Madame Sans-Gene a ritmi forzati…devono mandare a casa il pubblico per esaurimento di posti. Suvvia, non scherziamo! Non possiamo paragonare l’esito felice di un’Iris periferica – perché Roma è periferia del mondo musicale che conta davvero – con i titoli barocchi che occupano i cartelloni di tutto il mondo. Persino al Met è sbarcata l’opera barocca! Ripeto: non è colpa di nessuno, non è un complotto (basta parlare di cupole o macchinazioni, come se qualcuno avesse interessi reconditi ad affossare Mascagni e imporre Vinci), è semplicemente un dato di fatto. L’Arena non rappresenta certo il grande pubblico, ma una fetta di turismo di massa che poco o nulla è interessato all’opera, ma a tracannarsi birre e panini in un contesto “molto pittoresco” aspettando di vedere in scena elefanti o cavalli e canticchiare la “marcia trionfale” accompagnandone il ritmo col battimani… Peraltro nelle ultime stagioni l’arena non si riempie più nemmeno con Aida…quindi fa un po’ tu! La storia non è pilotata da qualcuno, da “eminenze oscure” che tengono in mano i destini di tutti noi: semplicemente in questo periodo storico l’opera barocca o il Rossini serio – piaccia o meno – interessa il pubblico, Cilea o Mascagni molto meno. Magari tra 40 anni accadrà il contrario e ci sarà un serio ripensamento sulla giovane scuola. Chi vivrà vedrà. Certo che non ci si può basare sull’affluenza di pubblico del Festival di Roccacannuccia… Poi che a te o a me piaccia Risurrezione di Alfano più dell’Artaserse di Vinci poco importa.
I viennesi, che la storia della arte la sapevano fare molto bene, crearono tra i due secoli xix e xx il concetto, imperfetto ma utile, di kunstwollen, la volonta’ d’arte, per esprimere e descrivere, in termini generali e forse anche poco nitidi, il fenomeno per cui in certi periodi si verifichi maggiormente l’apprezzamento di certe forme d arte rispetto ad altre. Come in ogni cosa, le produzioni artistiche hanno alti, bassi e medi prodotti. La musica proibita soffre di diseguaglianze qualitative, oltre ad essere assai meno abbondante della sterminata produzione molto spesso seriale di età barocca. Si tratta di abitudine ed educazione alla ascolto. Battiamo il tasto barocco da quasi 30 anni,quello verista non lo battiamo per nulla. E la gente risponde di conseguenza. Poi, circa i giudizi di valore superiore questo ultima……beh, non sono molto ottimista. Certi manierismi , ricercatezze, esagerazioni floreali, poetica delle piccole cose minstufanomtanto quando gli stereotipi codificati e di mestiere del barocco.
Se è per questo le opere che di gran lunga prediligo sono Orfeo e Incoronazione di Poppea. Ma che c’entra? Ho solo fatto notare:
1°) che la Giovane Scuola non è solo Iris o Resurrezione, ma quasi tutto Puccini + altri titoli tuttora amtissimi ovunque: dunque quel periodo, nei suoi titoli maggiori, prende il pubblico eccome;
2°) che alcuni titoli desueti hanno incontrato nella storia recente e meno recente – dove ripresi – anche il successo del pubblico.
3°) che sia un gran peccato relegare nel dimenticatoio opere che meriterebbero di essere conosciute non solo da un’ élite di specialisti o appassionati.
Con “giovane scuola” non si intende certo Puccini…
Io però dubito che ad un pubblico in generale sempre meno colto possa piacere più Artaserse che Iris…
Uno può pure fare la guerra ai mulini a vento, fatto è che oggi – e lo si vede nei cartelloni soprattutto all’estero – il barocco interessa di più. È un dato di fatto…puoi dirmi quel che vuoi, che ti piace di più Iris o Fedora, anche io potrei dirti i miei gusti, ma se guardi i cartelloni di tutta Europa il barocco è presente in modo massiccio e fa il tutto esaurito. Il mondo non finisce con l’Italia…anche lo sciovinismo dovrebbe avere un limite nel realismohttp://youtu.be/2wIQ0creErs
Sì, ma siccome tra le poche idee buone che salvo dell’economia classica c’è la legge degli sbocchi, credo che la domanda spesso la crei l’offerta piuttosto che viceversa. E se devo dirla tutta e brutalmente, credo – e forse mi piace anche pensare – che il barocco più o meno lo porti a casa con le vocette mediocri che spopolano abbondantemente nel repertorio. Quindi lo proponi e il pubblico se ne innamora perché quello ha. Mente invece come sottolinea Gianmario hai voglia oggi a chiedere a qualcuno di cantare Isabeau o Piccolo Marat. O la Cena della quale se non ricordo male Lazaro -vocina non certo fragilina – disse: una volta e mai più (ma magari confondo l’aneddoto…).
Magari la faccio cinica e la taglio giù con l’accetta la questione, ma il sospetto che sia così ce l’ho e pure bello forte.
Quanto all’Italia guarda: non è mia intenzione fare dello sciovinismo che, per come stanno messe le cose, lo sento come la cosa più lontana da me.
P.S. …ma che poi tu che sostieni che Puccini viene considerato a parte rispetto alla Giovane Scuola, mi metti Bach come esempio di barocco? Ma a maggior ragione Bach è Bach e sempre e solo Bach…
Anche perché non è certo Bach che può fare concorrenza ad Iris o Arlesiana, dato che per il teatro non ha mai scritto nulla (per sua fortuna, se no oltre allo scempio che ne fanno i baroccari sul piano vocale e strumentale, dovremmo sopportarne anche lo scempio visivo e drammaturgico che ne farebbero i registi, come avviene col coetaneo Handel). Comunque i gusti del pubblico sono sempre gusti indotti.
Non rammento saggio manuale o articolo che non includa Puccini nella Giovane Scuola.
Ma con “giovane scuola” si intende altro…Puccini è considerato autonomamente
Non vi è peggior sordo di chi non vuol sentire… Voci modeste, barocchisti che non vi piacciono e blablabla…ok, ma ammesso e non concesso quel che dite voi, il fatto è – ed è incontrovertibile – che Cilea, Montemezzi, Alfano, Giordano, Mascagni non sono più rappresentati come 100 anni fa…e oggi, al loro posto, si propone Vivaldi, Haendel e persino Vinci. Poi credete pure a quel che volete, a cupole mafiose o a società segrete che manipolano i gusti della gente – d’accordo con le feroci multinazionali (non mancano mai tra i complottisti di ogni risma) – al solo fine di favorire Caldara e affossare Leoncavallo…
Quanto a Bach e alla Passione, mi sembra persin superfluo ricordare PERCHE’ l’ho citato – basterebbe leggere quel che scrivo, e non scorrere solo i nomi per saltare pavlovianamente per scagliarsi contro barocchisti (pardon “baroccari”), la decadenza moderna e altre amenità: ma repetita iuvant…mi sembra che nel denigrare la giovane scuola, ritenuta “sicuramente” inferiore rispetto anche a Dozzinetti, si perda di vista il senso delle proporzioni, perché l’Arlesiana (per stare all’esempio) non sarà un capolavoro, ma non è peggio di tanti melodrammi…invece leggo (nei fan di Rossini & dintorni) un eccesso di stima per cui si parla di Stuarda o Ciro o Straniera come se fossero la Passione secondo Matteo, mentre Cilea parrebbe quasi uno scribacchino… Come al solito i giudizi vengono veicolati dalla soggettività dei gusti. Però non ha senso dire che l’Arlesiana è “brutta” e Maria Stuarda è un capolavoro…
Ps: non prendiamoci per i fondelli, quando si parla di “giovane scuola” si intende una serie di compositori tra fine ‘800 e ‘900, in cui anagraficamente rientra certamente Puccini, ma che nel linguaggio comune è tenuto distinto (stante la sua posizione particolare).
ma guarda che anche la Passione secondo Matteo è il frutto di un lavoro di artigianato, come tutta la musica da chiesa composta da Bach, cui lo obbligava per contratto l’incarico di Cantor, non certo la celeste ispirazione… del resto il numero di parodie, autoimprestiti (spesso neanche “auto”) per far fronte all’enorme carico di lavoro (una cantata sacra ogni domenica), è tale da far impallidire qualsiasi buon Rossini…
Io di certo non dico che Arlesiana sia brutta, anzi amo moltissimo il verismo, o meglio tutto ciò che è finito dimenticato. Nè disprezzo il barocco. Nè credo in cupole mafiose.
Credo solo che – lo ripeto e ne sono convinto – il barocco lo canti e lo suoni pure se sei svociato, una Francesca da Rimini o la Parisina di Mascagni mica tanto.
Poi senti, la si pensi come la si voglia, ma se preferire oggi il barocco significa applaudire la Kermes, beh allora è la prova provata questa che i gusti sono davvero indotti. Sto continuando a ragionare con l’accetta volutamente.
Comunque vorrei capirlo tutto ‘sto amore anzi: ‘sta moda del barocco.
infatti Mancini io mi sono sempre immaginato Bach trovare ispirazione ogni mattina sulla tazza del water dopo che tutti i figli avevano finalmente lasciato libero il bagno.-
E intanto la CPO pubblica una nuova registrazione dell’opera, da Friburgo, con Filianoti e Tamar.
Chissà come sarà…
http://www.jpc.de/jpcng/cpo/detail/-/art/francesco-cilea-l-arlesiana/hnum/3097592
Certo questa casa tedesca, tra le più coraggiose nell’esplorare le pieghe meno conosciute del repertorio, non ha avuto il timore che mancano a certe realtà più nostrane.