ROMA: “Maometto II” – Tacete. Ahimè! Quai detti iniqui ascolto!

Gentile_Bellini_003Sarò sincera: ormai preferisco andare a teatro più per il richiamo del titolo che per la presenza dei cantanti. Certo alcuni “eventi”, anche vocali, sortiscono in me ancora una qualche seduzione o curiosità, ma in linea di massima i motivi che mi hanno spinto ad andare a Roma per assistere al “Maometto II” sono stati l’autentica ammirazione che nutro per quest’opera napoletana di Rossini, la possibilità di poterla ascoltare dal vivo, il dare una piccola possibilità, una vaga speranza, alla compagnia romana nel portare in scena qualcosa di dignitoso, di professionale: non mi pareva di chiedere molto.
Vulgata melomane vuole che le opere vadano “fatte” con i cantanti che si hanno: qualunque opera con qualunque cantante, chiunque, il più in voga in quel momento; basta farla, non ha importanza come, ma basta il pensiero, come si dice nel caso in cui si abbia a che fare con quei tragici regali ricevuti per non si sa bene quale punizione, che prontamente verranno riciclati al momento opportuno rifilandoli alla lontana prozia decrepita o al compleanno di un casuale ignaro conoscente. Si, insomma, le opere vanno “fatte” tanto per “farle” e, soprattutto, con chi capita.
Ed è un po’ questa la sensazione che si percepisce assistendo a questo spettacolo.
Dopo aver macellato “La donna del lago” e fatto piombare il “Parsifal” in un gorgo di orrore inimmaginabile, Roberto Abbado, direttore di cui continuano a sfuggirmi i meriti e le virtù, non pago di tali imprese, ha deciso di sfregiare anche il “Maometto II”.
La “direzione” di Abbado spinge l’orchestra a sporcare tutti gli attacchi, a slegare la compattezza dello strumentale e del suo equilibrio, ad abbandonare l’intonazione e la rotondità del suono prediligendo suonacci stiracchiati, calanti, resi ancora più paradossali dagli ingressi a sproposito degli ottoni, dei fiati, dei legni e dallo stridore degli archi. L’opera ne risulta impoverita, depauperata nei colori, tutti votati ad un grigiore anemico, privo com’è di fraseggio, di epicità, di tragica aulica tenerezza, di contrasti generazionali e patriottici, di quelle sottigliezze musicali e psicologiche che assumono connotazioni inedite grazie agli elettrizzanti cambiamenti agogici, qui pressati e dilatati all’inverosimile: è ovvio che in queste condizioni la noia, la pesantezza hanno gioco facile ed è perfido fino al cinismo, Abbado, nel voler a tutti i costi cambiare i connotati dell’opera fino a renderla difficilmente riconoscibile o lontanamente paragonabile al dettato rossiniano o ad una interpretazione personale, perché lo stile non solo viene mancato, ma del tutto negato o rifiutato in favore di tempi e modi più vicini a marce funebri o marziali!

153858922-7d2ed865-d2b3-422a-89b8-7f825b880739Discorso a parte il cast: posso capire che l’apertura della partitura abbia creato un certo disagio in Alex Esposito e Dimitry Korchak, rinunciatari dell’ultima ora dei ruoli, rispettivamente, di Maometto ed Erisso in favore di Roberto Tagliavini e Mirco Palazzi per il protagonista e di Juan Francisco Gatell e Giulio Pelligra per il padre di Anna; ma sono anche convinta che molto poco sarebbe cambiato nella resa delle rispettive parti, essendo il cast scelto più vicino a ciò che ci si aspetterebbe da un gruppo di giovani accademici alle prime esperienze professionali ingaggiati per un intermezzo comico o una farsa a cavallo tra sette-ottocento per il solito volenteroso saggio di fine anno.

Tagliavini, che in natura sarebbe un basso buffo, affronta il carismatico personaggio di Maometto II col piglio del… basso buffo: il suo “Duce di tanti eroi”, biglietto da visita del personaggio, sembra quasi cantato da un gioviale oste che abbia deciso di offrire all’allegra compagnia il miglior vino della casa, così il legato viene disatteso in favore di un’emissione granulosa e tutta di fibra oltre che platealmente gutturale appoggiata com’è ad un registro centrale sonoro, ma privo di estensione in alto ed in basso, dove regolarmente si strangola, in cui la coloratura, gli abbellimenti, la nobiltà dei fraseggi destinati ai recitativi (tutte le scene ed i duetti con Anna Erisso) sono sostituiti da un balbettio canoro. Da ciò che avevo letto su forum, blog, Facebook, la potenza della voce di Marina Rebeka avrebbe dovuto come minimo spettinarmi e far tremare il lampadario del teatro, manco fosse la Nilsson, la Deutekom, la Gulin quanto a volume e sontuosità: mi sono ritrovata davanti ad una voce dal volume normalissimo, cosa che non considero una diminutio, che sovente però si faceva coprire dall’orchestra allorquando il volume si alzava un po’ più del previsto; una voce timbricamente e tecnicamente generica, espressivamente grigia e monotona, fragile nel registro acuto le cui note sono appena prese e lasciate andare subito dopo, discreta al centro, nulla nei gravi, deficitaria nella coloratura risolta attraverso uno jodel o attraverso l’accenno delle note che risultano del tutto spoggiate e prive di corpo o intensità, monotona e grigia negli abbellimenti e nelle parche e dimenticabili variazioni. Tutto qui? Si, tutto qui.
Annunciata indisposta Alisa Kolosova veste i panni contraltili di Calbo con una vocina piccola e dall’impasto sopranile più adatto ad una Zerlina, Despina, Barbarina, cercando di gonfiare la seconda ottava nell’imitazione di modelli negativi quali una Barcellona in sedicesimo, col risultato di mandare la voce indietro, di stringere la gola, di svuotare l’emissione e di cempennare la coloratura: lo so, sono cattiva nel pensare che anche in salute la Kolosova, che canta anche Waltraute, avrebbe potuto fare meglio, ma più di questo del suo Calbo non posso dire.
Il ruolo di Erisso si gioca principalmente sul registro centrale che deve essere ampio e dalla cavata nobile, duttile e piena di quei naturali affetti di cui il ruolo è intriso; ma se la voce di Gatell è vuota in basso, fragile al centro, stretta e stonata ovunque, espressivamente gelida e sprovvista di qualsiasi tipo di appoggio degno di questo nome, di che cosa possiamo parlare? Delle stecche generosamente elargite quinci e quivi?
Lasciamo perdere il Condulmiero di Enrico Iviglia ed il Selimo di Giorgio Trucco, che come le famose caramelle balsamiche si sentono nella gola ed anche nel naso.
Se grigia era la direzione, grigia era l’orchestra, grigi erano i cantanti, anche l’allestimento di Pizzi già visto e registrato a Venezia (con esito vocalmente ancora una volta fallimentare) nell’ambito della riproposta della versione lagunare e col lieto fine dell’opera stessa, si adegua a tanto grigiore: grigie sono le luci fisse, grigia la scena anch’essa praticamente fissa, che sarebbe anche potabile con quel bel tempietto ed il muro diroccati prima dell’invasione, stile Pompei insomma, grigi sono i costumi stile imbianchini o mondine dei veneziani, che contrastano con quelli polverosi e colorati dei seguaci di Maometto, che, oh qual trasgressione, impugnano i fucili, mentre Anna Erisso sfoggia collant che evidentemente Negroponte allora smerciava con successo.
4626B_310314084127Per il resto coro fermo, protagonisti che entrano correndo e si schiantano a terra di colpo o vengono paralizzati per interi minuti, pacche sulle spalle, lunghe passeggiate, mani sul cuore e menti in alto, occhi che guardano un punto imprecisato nell’infinito, combattimenti al rallentatore con improbabili sciabole che fendono l’aria alla vana ricerca di colpire zanzare e mosche invisibili, un harem di donne mussulmane ritratto come un campo profughi e tanta noia.
Insomma il brutto teatro di regia ed il brutto teatro di tradizione stanno dalla stessa parte della barricata.
6 minuti di applausi finali da parte di un pubblico spento e poco reattivo, che sparavo almeno ravvivato dai ROF boys, evidentemente imbarazzati: tanto per applaudire, insomma.

Marianne Brandt

Merita alcune righe di riflessione anche la recita pomeridiana di domenica 6 aprile, unica del ciclo romano a essere stata interamente affidata a prime parti differenti da quelle impiegate nelle altre rappresentazioni. Se si pensa che, il pomeriggio del giorno prima, alla quinta recita proposta nel giro di una settimana o poco più, le ultime file di platea erano scarsamente popolate, chiusi numerosi palchi e occupata (non certo gremita) esclusivamente nel settore centrale la galleria, viene da chiedersi per quale ragione, di un titolo evidentemente poco appetito dal pubblico, siano state proposte così tante recite e in forza di quale misterioso calcolo si sia scelto di affidare la suddetta pomeridiana a cantanti, tutti debuttanti nelle rispettive parti e decisamente digiuni di un repertorio affatto peculiare, come quello del Rossini napoletano, di cui Maometto II costituisce uno dei titoli più singolari e affascinanti. Si affaccia il sospetto che siffatta scelta non derivi da ben ponderate necessità artistiche, ma costituisca un esempio, l’ennesimo, di quelle decisioni “politiche” che regolano la vita e i rapporti di teatri, agenzie teatrali e potentati consimili. I frutti, peraltro, sono stati inequivocabili, aggravati dalla bacchetta, pesante e pressappochistica, che già la sera precedente aveva, col concorso di un’orchestra e di un coro del pari impresentabili, fatto scempio del melodramma di Cesare della Valle.
Carmela Remigio, già promettente voce di soprano lirico, si presenta con una prima ottava vuota e sorda, cui l’esecutrice supplisce, o più precisamente si illude di supplire, ricorrendo al parlato (notevoli soprattutto nella sortita e all’adagio del duetto con il mentito Uberto). Nella zona che sta fra il do centrale e il fa diesis immediatamente successivo la voce è malferma e accusa frequenti sbandamenti d’intonazione, mentre già dal sol compaiono suoni ora gridacchiati, ora pigolati, in una sorta di maldestra imitazione di quello che il modello indiscusso di approccio soubrettistico ai ruoli Colbran, ovvero Cecilia Gasdia. Inesistente legato, limitata gamma di colori esibita nei recitativi e nelle grandi scene declamate (l’accento è, al massimo, quella di un’esausta Mimì di provincia), esecuzione assai approssimativa dei passi fioriti, con conseguente semplificazione delle agilità previste. Semplificazione che nella scena finale diventa marchiana, non solo con la soppressione dei trilli, ma con la banalizzazione o la soppressione di numerose figure ornamentali (“Sì ferite”), e non basta l’interpolazione di un paio di acuti, peraltro fischianti, a ristabilire l’equilibrio compromesso dallo sfrondato virtuosismo. Un autentico strazio, insomma, che sembra lasciare interdetto persino il pubblico romano, che pure a fine recita rende omaggio, verosimilmente, al coraggio della solista.
Assai deludente anche Mirco Palazzi nei panni, decisamente larghi, anzi, sovradimensionati, del protagonista. Limitata cavata vocale alla sortita, agilità pasticciate, acuti tirati e poco sonori (non che in basso le cose vadano molto meglio), si distingue soprattutto per la propensione a inventare interi passi dei recitativi e anche dei cantabili, probabile conseguenza di un limitato numero di prove, ma più ancora di uno studio della parte bisognoso, per lo meno, di una seria revisione. Analogo ripensamento, forse ancor più urgente riflessione dovrebbe suscitare, nell’interessata e in chi ne gestisce la carriera, il Calbo di Teresa Iervolino, passata nel giro di pochi mesi da un Tancredi all’Aslico – del quale, decisi a non infierire su un cast di quasi debuttanti, benché sortiti da prestigiose scuole di perfezionamento (sic), abbiamo omesso di riferire – a Maometto II 3_0una Pietra del paragone cantata al Théâtre du Châtelet sotto la blasonata bacchetta di Jean-Christophe Spinosi, fino a questo Maometto II romano. La voce suona bassa di posizione, fermamente piantata sul palcoscenico, senza alcuna espansione nella sala che non sia quella derivata dagli strilli in acuto, derivati dall’ispessimento artificiale della prima ottava. Al netto degli sbandamenti d’intonazione (notevoli soprattutto nel cantabile del terzettone e nel finale primo), resta una prova, a esser buoni, acerba, come quella di Giulio Pelligra, voce da tenore caratterista, tecnica da Castrocaro in una parte che, sebbene priva di numeri solistici, presenta tutte le insidie tipiche di una parte pensata per Andrea Nozzari, dalla necessaria espansione in zona medio-grave alla saldezza richiesta sui primi acuti, all’inevitabile varietà di accenti, ora commossi, ora irruenti, sempre e comunque solenni e aulici, caratteristici del padre, del cittadino, del guerriero veneziano.

Antonio Tamburini

 

Gli ascolti

Rossini – Maometto II

Atto I

Ohimè! Qual fulmine – Juan Francisco Gatell, Marina Rebeka, Alisa Kolosova (2014), Giulio Pelligra, Carmela Remigio, Teresa Iervolino (2014)

Atto II

Gli estremi accenti ascolta – Marina Rebeka e Roberto Tagliavini (2014), Carmela Remigio e Mirco Palazzi (2014)

Sì, ferite, il chieggo, il merto…Madre, a te che sull’Empiro – Marina Rebeka (2014), Carmela Remigio (2014)

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29 pensieri su “ROMA: “Maometto II” – Tacete. Ahimè! Quai detti iniqui ascolto!

  1. Ferocissimi come sempre :) ! Ho ascoltato solo i due “Sì ferite” (quintessenza del virtuosismo rossiniano al suo apice) e ho trovato davvero scandalosa l’esecuzione della Remigio che spiana, semplifica e appiattisce la scrittura di Rossini senza pudore. Leggermente meglio la Rebeka pur nel suo miniaturizzare il sublime ruolo.

  2. Un saluto a tutti! Ho assistito alla recita con il primo cast e con il tenore Pelligra. Certo che un Maometto II senza mezzosoprano non è che abbia molto senso, se poi la direzione è stata esattamente quella che avete riferito voi… Non so se sia stata peggio la Kolosova o Pelligra, la prima, a cui nulla è servito gonfiare e scurire la vocina, ha tra l’altro cantato la sua aria al supermercato, con mega-super-sconti, insomma l’aria era tutta un’altra cosa, e di certo non quella che ha scritto Rossini. Il secondo, altro che Castrocaro, semplicemente non si sentiva… E quel poco che si sentiva era appunto … poco, per non parlare dell’intonazione costantemente ballerina. Devo dire che la Rebeka è stata, secondo i canoni attuali, brava, nel senso di gradevole, ma non c’entra nulla con il Rossini tragico e gli accenti infantili con cui cercava di caratterizzare il personaggio in tutto il I atto non si potevano sopportare. Però almeno si sentiva ed è apparsa tutto sommato corretta nell’esecuzione. Ovviamente della tragedienne non ha assolutamente nulla, quindi in queste condizioni un ruolo come Anna Erisso non te lo porti a casa. Per fare un esempio improbo, anche la Anderson era abbastanza inerte dal punto di vista del coinvolgimento e dell’interpretazione, ma almeno cantava il Rossini tragico, non quello comico. Per non parlare della bella e potente voce e della coloratura solida che si ritrovava che con quelle della Rebeka non hanno assolutamente nulla a che fare. È chiaro che in un panorama come quello attuale una come la Rebeka rischia pure di spiccare, se poi nel II cast c’era la Remigio che ho sentito nelle registrazioni e che non avrebbe dovuto debuttare il ruolo punto e basta… Un ruolo del genere rischia di inchiodare un mezzo fresco, figuriamoci uno fragile e usurato come il suo che in basso emette solo aria e sugli acuti sbanda… Ma questi sono particolari, la domanda rimane una sola ed è quella che giustamente avete sottolineato: perché TUTTI cantano il Rossini tragico come se fosse il comico? Perché nel loro incontro Anna e Maometto sembravano Rosina e Figaro? Perché Maometto quando dice “Sospiro io, sì, nel rammentar Corinto” sembra star giocherellando? Tagliavini non è stato all’altezza, anche se preferibile al Palazzi sentito dalle registrazioni, visto che sbandava di meno, e, come avete detto, non era male nel registro centrale, mentre in forte difficoltà sugli acuti presi sempre in modo macchinoso. Un’ultima osservazione: l’opera è un capolavoro, davvero. Peccato…

    • perché tutti cantano il tragico come se fosse comico? perché per accentare occorre saper cantare. perché per fare agilità di forza e non sfarfallio occorre saper cantare. perché per avere punta nella voce occorre saper cantare. perché per non parlare e soffiare occorre saper cantare. perché oggi al centro nessuno sa più cantare…perché perché….perche’ si cantan male. punto. ( perché poi cantano da schifo pure il rossini comico, tanto per chiarire..)

    • Eccellenti la Scalchi buatissima? La Gasdia che arrivava sfinita alla fine? Ford che …no comment? Va bene che ormai siamo alla frutta, ma…. in quella produzione si salvò RAMEY ma non fu un trionfo per nessuno! Perfino i soliti giornalisti proni alla Scala sempre e comunque scrissero di un mero “successo di stima” ….Io ascoltai la prima alla radio e fu un cosa imbarazzante in primis Ferro sul podio. Se poi alle repliche avvenne il miracolo non so… Saluti e buona Pasqua. Maometto II

  3. Non dimentichiamoci che l’estate precedente a Pesaro nessuno si coprì di gloria, tranne Pertusi che si difese più che onorevolmente nonostante una forte indisposizione ( peraltro neanche annunciata)

  4. Dimenticavo: a Pesaro Vargas ce la mise tutta. Senza essere memorabile riuscì comunque a “costruire” un personaggio, anche se il fraseggio più che ostentare fierezza esibiva toni spesso patetici e alla lunga noiosetti.

    • Purtroppo avevo sentito degli stralci dalla Barcaccia (programma che trovo divertente anche se mi trovo spesso in disaccordo con i pareri espressi) e gli elogi si sprecavano per basso (Palazzi) e soprano (la Rebeka) eppure gli ascolti erano davvero brutti… hanno pure avuto il coraggio di criticare Ramey evidenziandone il timbro brutto (io personalmente lo trovo molto bello) e tirando in ballo il tremulo che ha acquisito dopo il 2007 o giù di là… ero sconcertato, perché ho ben presente il Maometto di Ramey e non solo quello e credo che sia stato inarrivabile in quel repertorio.

      Auguro a tutti Buona Pasqua:)

      E ringrazio Billy Budd per il magnifico ascolto della Sills, una cantante che amo moltissimo e che non è mai troppo ricordata e spesso posposta alla Sutherland (quando spesso era l’australiana a cederle sotto molti punti di vista!).

  5. Vivaverdi
    quella sera alla Scala al Maometto c’ero anch’io e posso assicurare che la Scalchi era veramente indecente (come lo era sempre stata fina dagli inizi tanto è vero che finì molto presto), la Gasdia come al solito si inventava le note nota per nota e bleffava come aveva sempre fatto, Ford secondo me invece non era male (anche se Vargas l’estate precedente a Pesaro, a mio parere, era stato molto meglio). L’unico veramente grande era ancora Ramey (sebbene mostrasse l’inizio del suo lungo declino), però sempre magnifico. Quelli della barcaccia (che non sento mai perchè non mi divertono…) mi sembrano assurdi a criticare il colore della voce di Ramey o altro…Ramey… il più sensazionale basso/baritono che abbiamo avuto nel dopoguerra, quello che ci ha fatto capire che cosa significava il canto del Rossini serio (insieme a Blake, alla Horne, alla Sills…in qualche modo anche alla Sutherland). Cantanti storici che ci hanno rivelato un mondo, una cultura..
    Quello che c’è adesso è qualcosa di rivoltante e la responsabilità della stampa e dei direttori (anche d’orchestra) è enorme. Ma forse è giusto così. L’opera è qualcosa di morto che il mondo non comprende più e noi che siamo qui ad ascoltarla ancora siamo dei fossili. Ogni epoca ha l’arte che la ripsecchia…
    Però la crisi viene da lontano, e quel Maometto II di cui parliamo ne è una testimonianza. Cantanti come la Gasdia, ad esempio, non avrebbero dovuto essere incensate come grandi artiste. E come lei ce ne sono a centinaia. Eppure per almeno 10 anni ha imperversato e io l’ho anche applaudita (modertamente) perchè in qualche modo riusciva anche a darla a bere e a cavarsela.
    Credo che sia per questo che Duprez, parlando di quella serata, scriva di cast molto migliore. In confronto a quello che ci viene ammannito ai nostri giorni quello era un cast principesco, e parlare di vera schifezza come scrive la divina Grisi forse mi pare eccessivo.
    Saluti

    • bravo vivaverdi! condivido tutto. le ragioni della crisi vengono da lontano, e infatti in quel maometto c’erano tutte le spiegazioni. il più grande teatro del mondo che chiamava ramey su maometto quando la voce era appesantita e qua e là ballava anche, la dice lunga. I grandi della rossini renaissance e il rossini tragico stesso che spazio ebbero alla scala? …..pochetto, direi. il teatro milanese fu parecchio sordo al grande fenomeno musicale e vocale che furono i grandi rossiniani della prima ora. del resto è il solo teatro al mondo che non ha messo in scena la semiramide dopo quella della Sutherland, e il cui direttore stabile, abbado, non ha mai riconosciuto al rossini tragico il valore assoluto che ebbe nella storia della musica. del resto, ci siamo fatti il Tancredi con la brava ma modesta d’intino, per perdere quello della horne e persino quella della terrani….sic

  6. Anch’io condivido parola per parola quello che scrive vivaverdi.Soprattutto, ahimé, il commento sull’Opera come genere ormai esisto. Egoisticamente , mi consolo pensado che gli ultimi bagliori di un’arte al suo declino ho avuto modo di ascoltarli, e che altri la pensano come me.

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