IL PIRATA. l’enigma del canto di Rubini

In un precedente intervento ho ricordato come Rodolfo Celletti in occasione della proposta del Pirata a Martina Franca nel 1987 spiegò, nel corso delle interviste come fosse impossibile e presuntuoso pretendere di far risuscitare Rubini proponendo il titolo che, da un lato, rese celebre Bellini e dall’altro concorse a creare il mito del tenore romantico, che chiudeva con il passato rappresentato dal castrato e dalla sua unica ipotesi di sostituzione, ossia il contralto. Nel tentativo di far rivivere quel modello gli elementi indispensabili erano un tenore, che reggesse le tessiture acute di Rubini e fosse in grado di riprodurre e riproporre quel mix di angelico e virile nel contempo che la scrittura vocale del Pirata ed i racconti dei coevi sembrano evocare. Poi se gli acuti di Rubini fossero in qualche modo simili a quelli di Morino o di Blake e se alla realizzazione dei segni di espressione fosse più adatto l’uno o l’altro dei due tenori non possiamo dirlo. Entrambi reggevano con irrisoria facilità la scrittura di Bellini, ma Blake con il mordente del canto di agilità quel pirotecnico slancio, che sino ad allora avevamo creduto esclusiva delle voci femminili richiamava assai più David. Oltre tutto il tenore americano, sempre conscio dei propri pregi e dei propri limiti, aveva ben chiaro che nel canto elegiaco la sua voce mancasse di autentico abbandono e sincera dolcezza. Saggiamente limitò a teatri di limitate dimensioni e non sempre di prima linea le esecuzioni non solo del Pirat, ma in generale dei titoli di Bellini. Vi è più da aggiungere che oltre alle parti scritte per lui quelle affrontate da Rubini sembrano differire dal repertorio più tipico di Blake, che non ha mai cantato il title role di Otello, Pollione di Norma od anche Arnoldo, mentre Edgardo, ruolo del declino di Rubini, fu un’esperienza giovanile e sporadica di Blake.
Ad onta del timbro ingrato in quanto piuttosto vibrato e del vizio di incostanza nello studio e nella preparazione di una parte, sempre che non fosse a Martina Franca, Morino vantava una maggiore ampiezza nel medium, estranea al collega americano ed una propensione al canto elegiaco e patetico che richiamava i tenori di fine ‘800.
Preciso non è il tema di questo intervento un confronto fra Blake e Morino, serve solo per ricordare che ancora un secolo e mezzo dopo la prima Giovanni Battista Rubini era con la sua voce prodigiosa protagonista di divisione e studio.
Stiamo provando ad immaginare come Rubini potesse arrivare al sol sovracuto e soprattutto fraseggiare e cantare in un zona della voce dove normalmente ci sono gli acuti di molte parti per tenore.
Le registrazioni della voce maschile arrivarono circa settant’anni dopo la prima del Pirata e nella migliore delle ipotesi raccolsero le testimonianze di cantanti che potevano essere i nipoti di Rubini come nel caso di Checco Marconi, nato nel 1855. Non solo, ma i primordi del disco videro il “ciclone” Caruso, che se non fu nella storia del canto tenorile quello rappresentato da Rubini, vi andò di molto vicino e che spazzò via il gusto e la vocalità tenorile sino ad allora in auge. In primo luogo, complice anche il fatto che le tessiture tenorile dell’opera verista fossero una terza più basse di quelle di Rubini e che il verismo, sotto il profilo del carattere del personaggio inseguiva in primo luogo una autentica virilità, la prima vittima fu il cantare in falsettone, la possibilità di emettere, senza destare stupore o critiche nel pubblico, gli acuti ora a piena voce ora in falsettone ora anche in falsetto (le tre scelte erano praticate dai tenori sulla stessa nota nel duettone degli Ugonotti) e l’eseguire passi di agilità, trilli compresi. Poi aggiungiamo, ma siamo al di fuori dell’eredità Rubini o dell’archeologico gusto di ricervare taluni modi di Rubini, almeno sino al 1940 i tenori cantarono splendidamente e per tecnica e per gusto.
A prescindere da Checco Marconi, che restituisce, pur declinante, con il fiato corto e costretto a patteggiamenti con la tessitura un’atmosfera sognante ed elegiaca ad un brano -la stretta del duetto dei Puritani- che di lì a poco sarebbe diventata la gara dei sovracuti o da un epigono di Marconi e che venne, infatti, condannato ai teatri di provincia Edgardo Gherlinoni, che sempre nel duetto dei Puritani esibisce un falsettone facile, pieno e squillante, spesso gli esempi di quel canto e di quel gusto perduto vanno ricercati fuori della patria del bel canto, che creatrice del Verismo, per prima ne codificò anche il gusto vocale.
Chi ascoltasse il più famoso tenore dell’opera di Vienna coevo di Caruso (Leo Slezak) nell’esecuzione dell’aria Magische Töne della Regina di Saba sentirà una voce maschile che esegue gli acuti ora in falsetto ed ora in falsettone, senza per questo essere priva di virile sensualità. Aggiungo paragone irrinunciabile con l’esecuzione di Gedda dove l’alternanza di suoni pieni e suoni in misto è assente, ridotta tutta ad un buon falsetto anche in zona centrale, spacciato per mezza voce.
Le stesse caratteristiche emergono in due registrazioni di arie da opere francese ad opera di un altro concorrente di Caruso il lettone Hermann Jadlowker che esegue in misto il do acuto della cavatina di Faust (gli acuti di Jadlowker a piena voce spesso risultavano fissi e privi di armonici) e che nella grande aria di Fra’ Diavolo al terzo atto compie l’autentica prodezza di passare dal falsetto al misto ed alla voce piena, nella stessa frase.
Anche in area russa tenori come Sobinov e Smirnov quando cantavano le opere francesi ricorrevano a suoni misti ed emettevano in quel modo gli acuti.
Peraltro un allievo o forse l’unico allievo di Moreschi in un’intervista spiega chiaramente che ben allenata (traduco sostenuta dalla respirazione e dal regolare flusso del fiato) la voce maschile è perfettamente in grado di cantare un’ottava sopra la voce del tenore utilizzando il falsetto che poi è nelle prime nota un misto. Quello stesso tipo di suono che i tenori di vecchia scuola utilizzano in certe situazioni (sopratutto nel canto elegiaco come accade nell’aria di Nadir dei Pescatori di Perle, dove in questo senso Beniamino Gigli ed Alain Vanzo sono esemplari) o quando la tessitura era particolarmente acuta e la pagina richiedeva di cantare piano e legato, come accade a Leonid Sobinov, a Lemeshev e sopratutto a Kozlovsky che nel Barbiere di Siviglia interpola un fa sovracuto che può essere raggiunto solo mediante suoni marcatamente di testa. Per altro debbo aggiungere traendo spunto proprio dalle osservazioni di Domenico Mancini che aveva studiato con un cantante della cappella Sistina, che quel tipo di emissione veniva insegnato ed appreso nelle cappelle musicali legate alle grandi istituzioni religiose ome la Sistina, la Lauretana. Non a caso il tenore che più di ogni altro (e lo dice livido di rabbia il suo più diretto rivale, Lauri Volpi) utilizzò emissioni con prevalenza di risonanze di testa fu proprio Gigli che dalla Lauretana usciva. L’esempio più famoso resta l’aria dei Pescatori di perle, incisa nel 1932 ed abbassata di mezzo tono se non erro, ma uno stralcio di Sonnambula, ruolo di Rubini e che Gigli cantò sporadicamente ci apre una luce su come, forse, potesse essere l’emissione dei grandi tenori dell’800 che si rifacevano al modello di Rubini o di Rubini medesimo. Poi, per la cronaca, Gigli quando nel 1935 vestì i panni di Gualtiero venne censurato per avere cantato troppo forte e con troppa ricerca dell’effetto drammatico, ma questo non per incapacità come testimonia la registrazione di Sonnambula, ma per il semplice fatto che il personaggio di Gualtiero, reietto, fuggiasco era ricaduto nell’idea del personaggio dramamtico e tragico, mentre Elvino restava un personaggio di mezzo carattere. Anche questo a prova come nel caso di Giuditta Pasta che i personaggi pensati e predisposti sulle caratteristiche di un cantante possono prendere starade interpretative differenti.

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9 pensieri su “IL PIRATA. l’enigma del canto di Rubini

  1. Bell’articolo, complimenti. Mi ricordo una discussione che ho avuto con colleghi melomani: va’ sapere come cantassero i Rubini, o anche gli ultimi castrati, forse rimarra’ sempre un mistero. E forse e’ anche meglio cosi’, per le nostre orecchie potrebbe risultare non molto piacevole.

    • Come cantasse Rubini , ma soprattutto come armonizzare le varie zone della voce è un bel mistero. Come cantasse lt ultimo dei castrati che calcaree le scene, ossia Giovan Battista Velluti coi suoi cocolessi lo si capisce bene dalla corrispondenza fra Gaetano Rossi e Meyerbeer quando volevano per la prima del Crociato in Egitto Carolina Bassi. Per la cronaca e per onestà intellettuale la Bassi, primo Falliero e famoso Arsace di Aureliano è una delle passioni archeologico-vocali del Donzelli

    • Per avere un’idea di come potesse emettere dei suoni un castrato ci sono sempre le vecchie registrazioni di Moreschi
      https://www.youtube.com/watch?v=t6U8VZ6riNk
      ma sono sempre da sentire cum grano salis, non essendo il Moreschi un grande cantante “teatrale” dedito all’opera seria. Può servire solo per farsi una vaga idea di cosa fosse la tipologia timbrica e di quali particolarità l’operazione tanto aborrita dal Parini portasse all’organo vocale di chi l’aveva subita.

  2. Tale nota è un tentativo, un tentativo di fare qualcosa che non era al 100% nelle corde di Pavarotti (a parte il fatto che non so quanti altri in quegli anni avrebbero potuto neanche provarci a fare tali note…). Credo che considerazioni simili dovrebbero farsi per il fa sovracuto del terzo atto de I puritani dell’incisione completa diretta da Bonynge.
    https://www.youtube.com/watch?v=BrHhTQmEa9o
    Pavarotti aveva una grande facilità in acuto, però il falsettone non era il suo cavallo di battaglia.
    Neanche Gedda, altro tenore dagli acuti facili, è del tutto soddisfacente.
    https://www.youtube.com/watch?v=9w_TTK7UP1c
    Il più omogeneo e convincente nella linea vocale e nei passaggi dal suono misto al falsetto non potrebbe essere Matteuzzi?
    https://www.youtube.com/watch?v=8UWGT-_F0Wc

    • Matteuzzi (irresistibile Conte Ory) sembra più “omogeneo” di Pavarotti perché ha voce è più brutta del modenese. Diciamo una trombetta di latta rispetto a una tromba d’argento…. Il problema di Pavarotti era che forse gli mancava la cultura, o la curiosità, di resuscitare stili del passato… se Bonynge si fosse fidanzato con lui invece che con la Sutherland probabilmente avremmo forse avuto l’erede di Rubini… Scherzi a parte, come timbro, ricchezza di armonici, facilità in acuto Pavarotti è stato l’ultimo grande tenore della storia dell’opera..trovare “ridicoli” i suoi tentativi significa meritarsi Pretti, Kaufman e compagnia ..

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