Macbeth a Ravenna: Muti fuori tempo massimo.

mutiIl Macbeth proposto in forma di concerto a Firenze e in replica al Ravenna Festival doveva essere una celebrazione del sodalizio che lega da più di quarant’anni Riccardo Muti alle compagini gigliate. In effetti, come già avvenuto con il Nabucco di cinque anni fa (proposto, però, con i complessi dell’Opera di Roma), l’esecuzione ha soprattutto evidenziato l’inadeguatezza di buona parte degli ingredienti assemblati e, per la proprietà transitiva, del risultato finale.
In primo luogo, l’abbiamo già scritto ma volentieri lo ribadiamo, è vergognoso che una manifestazione che ha proposto (soprattutto in un passato ormai remoto) appuntamenti concertistici di rilievo non abbia, nel corso della sua quasi trentennale storia, pensato di dotarsi di uno spazio in ogni senso più adeguato rispetto a un palazzetto dello sport, buono forse per ospitare spettacoli di danza (la visibilità è discreta anche dai posti più laterali) ma catastrofico sotto il profilo dell’acustica. Al persistente riverbero si unisce poi la scelta, del pari inaccettabile, di amplificare solisti e cori, anche perché le voci risultano sì “in primo piano” rispetto all’orchestra, ma la stessa evidenza acquistano le riprese di fiato, i colpi di tosse e insomma tutti i rumori di scena (per tacere della banda interna, tanto “invasiva” da sembrare anch’essa sul palcoscenico). In queste condizioni, il compito degli esecutori diviene immensamente più difficile, checché ne pensino i tecnici del suono e altri esperti di un settore affatto differente e per nulla affine a quello operistico.
Muti propone una lettura del titolo che concede poco alle suggestioni del sovrannaturale e ancor meno al dramma della coppia protagonistica, che risulta, con maggiore evidenza nel rifacimento francese, schiacciata in pari misura dalla sete di potere e dalle conseguenze delle proprie scelleratezze. Il preludio, che presentando dapprima un tema associato al mondo delle streghe e poi il motivo del sonnambulismo, si pone come palese manifesto e riassunto dell’opera (simile, in questo, a tanti preludi del primo Verdi), viene reso con una rapidità al limite della sbrigatività, un suono orchestrale secco e pesante, che non sa e non può esprimere altro che una generica “pulizia”. Si può (e non a torto) biasimare la qualità dell’invenzione musicale delle scene delle streghe, ma questa non può essere una scusa per travisare il carattere insieme demoniaco e triviale dei cori e soprattutto delle danze (qui distillate a tempo letargico). Allo stesso modo, il tempo garibaldino staccato all’attacco del concertato finale primo “Schiudi inferno” (in partitura segnato “Adagio”, quindi “Grandioso” e finalmente, nella stretta, “Allegro”) non permette di creare tensione, ma al contrario priva di qualunque senso una scena in cui dovrebbe emergere, semmai, l’ipocrisia della futura coppia regnante e lo sgomento degli astanti. Altro momento mancato, sotto il profilo espressivo prima ancora che esecutivo, il finale secondo, in cui le apparizioni del fantasma di Banco suscitano in orchestra fragore, ma non colori adeguati al terrore che si scatena nell’animo di Macbeth (che ha in questo punto la sua “scena di pazzia”, preannunciata dal soliloquio che prepara il regicidio). A conti fatti, e al netto del prevedibile fracasso di ottoni e percussioni nei finali d’atto, Muti restituisce in maniera plausibile le danze (a onta di scelte agogiche, che metterebbero in difficoltà qualsiasi coreografo), il coro “Patria oppressa” e passaggi come l’ingresso di Lady Macbeth, che precede il duetto “Fatal mia donna”. Un po’ poco, per un direttore con la storia e l’esperienza del Maestro per antonomasia.
Compito del direttore e concertatore in un titolo come Macbeth è anche quello di suggerire ai solisti, in primis ai protagonisti, soluzioni di fraseggio che siano consone ai diversi momenti della tragedia. Mentre basso e tenore possono limitarsi (si fa per dire) a cantare, baritono e soprano sono chiamati a recitare nel senso più completo del termine; spesso, una buona dizione e la capacità di trovare gli accenti più adatti alle varie situazioni permettono di aggirare eventuali limiti vocali o, almeno, di ampleur. Per rendersene conto basta ascoltare il live palermitano con Taddei e la Gencer sotto la direzione di Vittorio Gui, anche se, a onor del vero, in quel caso diventa particolarmente complesso capire chi abbia maggiormente influenzato gli altri due. Muti stacca tempi non troppo indugianti nei momenti solistici, ma fa poco o nulla per moderare vezzi e soprattutto malvezzi della diabolica coppia scozzese. Non è la prima volta che Luca Salsi si cimenta con il sanguinario guerriero e il risultato poco si discosta da quanto udito in passato: grande difficoltà nel sostenere la tessitura di un ruolo che, anche nella revisione parigina, rammenta quanta parte giocasse la facilità di Felice Varesi nella regione acuta della voce (qui affrontata con abbondanza di inflessioni nasali), fiati corti (soprattutto negli ultimi due atti), espressività che rimanda per lo più al funesto modello nucciano. Un fior fiore di prova, comunque, di fronte alla Lady di Vittoria Yeo, voce anche piacevole di soprano lirico che in basso si arrabatta, mentre dal centro ai primi acuti emette suoni regolarmente spinti e gridacchiati: quando tenta di cantare di agilità (cavatina, brindisi) il risultato sfiora il comico involontario. Un filo meglio la scena del sonnambulismo, in cui, se non altro, il re bemolle (appena sfiorato) è una nota decente (e la perfetta testimonianza dell’autentica natura vocale dell’esecutrice). Viene da chiedersi quanto ancora possa durare una voce come questa, poco o nulla governata da una solida tecnica di canto, per sistema applicata al repertorio verdiano (autentica “specialità” della signora), ma è un dubbio che evidentemente non sfiora i maestri di canto, procuratori e gestori del settore. Quanto agli altri, Riccardo Zanellato non brilla come in altre occasioni, compitando con qualche fatica la sua aria, mentre Francesco Meli risolve l’assolo del quarto atto in forza della generosa fibra (pur già intaccata nella bellezza naturale del timbro), senza riuscire nei concertati a svettare con la facilità e lo squillo che dovrebbero competere a una parte di matrice ancora donizettiana.
Come spesso capita, sfogliando i resoconti fiorentini e romagnoli viene da domandarsi di quali visioni (non si sa se celesti o infernali) si pasca certa critica. Nessuno toglie agli ammiratori la facoltà di dispensare onori e incensi ai loro idoli (soprattutto se forti di una carriera in ogni senso cospicua), ma un poco di oggettività, almeno da parte degli addetti ai lavori, sarebbe sempre auspicabile.

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7 pensieri su “Macbeth a Ravenna: Muti fuori tempo massimo.

  1. Ve le scrivete, ve le cantate, ve le suonate, ve le leggete tra di voi 4 gatti. Ma quanto credete abbia forza e credito il vostro sito? Pubblicate l’elenco dei vostri “soci” sia pure con nick e mettete grafici di accesso e lettura.

  2. Concordo pienamente con le considerazioni sull’acustica del Pala DeAndrè, che è il vero tallone d’Achille del Ravenna Festival. Non mi trovo d’accordo invece sulle considerazioni circa la direzione di Muti: avendo avuto modo di ascoltarlo a Firenze, ritengo che abbia diretto un Macbeth forse meno drammatico e meno demoniaco di quello della Scala, ma sicuramente di un livello complessivamente altissimo, direi inarrivabile per il livello medio degli allestimenti italiani e di molti di quelli esteri. A Muti va inoltre riconosciuto il coraggio di preferire una forma di concerto ad una regia bislacca: un coraggio che lo ha portato ad un sostanziale isolamento rispetto a quel vero e proprio sistema di potere chiamato “regie-theater” che imperversa ormai nella quasi totalità del mondo occidentale.

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