Straniera al Maggio Musicale fiorentino

Straniera2019La prima edizione del Maggio Musicale Fiorentino del 1933, autentico ed irraggiungibile paradigma di idee artistiche e di loro coerente realizzazione, propose un titolo che, se non proprio dimenticato, non era certo scontato e consueto nei teatri italiani: la donizettiana Lucrezia Borgia. Poi il festival fiorentino nei suoi primi venticinque anni, i più stimolanti e significativi, non ripropose più opere del protoromanticismo italiano, preferendo strade ancora più peculiari come il Rossini serio (inaugurato con la Semiramide del 1940 e trionfale con la stagione del 1952 olorossiniana) o i titoli del neoclassicismo italiano di Spontini e Cherubini.
Il Maggio ritorna al protoromantico con Straniera, del catalogo belliniano e del primo Ottocento italiano (oggi ridotto alla trilogia Tudor, di cui francamente ne abbiamo piene le…) titolo poco frequentato e fors’anche misconosciuto. A torto aggiungo perché Straniera, venuta dopo la rivelazione del Pirata, ci dice molte cose sul suo autore, ma una più delle altre ovvero il pencolare di Bellini fra la grande tradizione napoletana, appresa al conservatorio partenopeo, a ministero di Zingarelli e Tritto, e Rossini, rivelatosi al giovane catanese per mezzo di Semiramide al teatro di San Carlo, che distava pochi metri dal conservatorio ed anni luce dai maestri ivi operanti e dediti, forti di quella possente eredità, ora alla didattica ed alla musica sacra e sempre all’antirossinismo. Rossini era, per loro e non solo, il Tedeschino, ossia chi aveva rinnegato la melodia per l’armonia e la scienza del comporre.
Colgo l’occasione di ricordare come questo dibattito sarebbe, assai più della terza, anzi quarta, edizione critica del barbiere di Siviglia, più utile e stimolante, quand’anche di eccezionale difficoltà per la irrinunciabile conoscenza della produzione melodrammatica napoletana dal 1760 in poi in un mondo accademico, che preferisce operazioni e studi assolutamente compilativi o di certo ritorno economico come la ipotetica quarta edizione critica del Barbiere. E la prova irrefutabile di questo mesto andazzo è l’attenzione filologica a Puccini, l’autore con Verdi e Wagner più rappresentato al mondo, che garantisce sicuri introiti. Ennesima dimostrazione del principio, declinato da Orazio, “litterae non dant”.
Pencolare fra tradizione napoletana e Rossini in soldoni perché alla tradizione napoletana delle melodie languidamente fiorettate appartengono tutti gli assoli di Valdeburgo, ruolo scritto per Antonio Tamburini, gli assoli di Alaide e le sezioni centrali di tutti i duetti fra i personaggi nonché i recitativi accompagnati cui i tre protagonisti affidano i loro sentimenti, al Rossini napoletano invece i numeri che si trasformano o che non rispettano le strutture tradizionali. Poco o nulla del Rossini tradizionale e per giunta affidato al personaggio di Isoletta che non è una vera rivale e cui affidata l’unica vera cabaletta in stile acrobatico rossiniano. Se poi aggiungiamo il finale primo che, complice la presunta morte di tenore e baritono, omette il grandioso concertato e si affida alle qualità di interprete della protagonista dobbiamo concludere che, forse non pienamente realizzate, il titolo proposto a Firenze ne doveva contenere parecchie. Di questa novità di Straniera o quanto meno del suo non essere in linea con la tradizione se ne accorsero in molti i primi interpreti e non solo. A Reggio Emilia in una ripresa del 1840, una grande protagonista come Eugenia Savonari Tadolini inserì nel finale primo la cabaletta “parmi vederlo ahi misero” che proviene da Amazilia di Pacini, aria di baule inflazionata quando la prima donna voleva dimostrare di essere tragica e virtuosa nel contempo, e riprendersi un diritto che alla prima donna apparteneva e che “or sei pago oh ciel tremendo” non soddisfaceva ossia l’aria di agilità. Eppure quel finale originale così scabro è moderno ed antico nel tempo costituendo un precedente di quello di Norma celebrato per modernità e ricollegandosi ad esempio a quello di Elfrida di Paisiello che è un puro recitativo accompagnato. A Venezia (1834) più semplicemente Domenico Donzelli nei panni di Arturo si riprese il diritto all’aria solistica, che i dubbi sulle qualità vocali di Domenico Rejna (1796-1843) avevano suggerito di omettere, a favore di ampi squarci di declamato, recitativo accompagnato che a quel tempo erano riservati ai grandi interpreti (Rejna era un famoso Otello rossiniano). Ebbene Donzelli combinò alla scena VII del secondo atto un numero solistico costituito dall’andante di Rodrigo di Dhu della Donna del lago “ah dov’è colei che accende” e dall’allegretto “Sorte secondami” di Antenore di Zelmira. Contezza dell’opera e delle sue peculiarità o capricci divistici è difficile dirlo ed in fondo poco importa, anche se non mi risultano manomissioni del finale primo di Norma o di Beatrice anche ad opera di dive, che della manomissione facevano regola di vita come la Pasta.
Quello che, però, è certo è che all’ascolto del terzetto Valdeburgo/Alaide/Arturo “no non ti son rivale” chiunque può riconoscere la fonte e qualcosa di più di un terzetto verdiano amatissimo come quello di Attila. Verdi poteva avere molti difetti, ma non quello di copiare o parafrasare pagine proprie, tanto meno altrui; dobbiamo desumere che il terzetto di Straniera dovesse averlo ispirato o colpito. Anche qui mi limito a riportare il fatto, precisando che nel 1831 Straniera ebbe ripresa importante a Parma.

Tutta questa riflessione si arena e crolla dinanzi alla realizzazione fiorentina, che affossa qualsivoglia stimolo di riflessione ed a mio avviso è di livello tale da rovinare pure le gite domenicali del solito pubblico “contentone” cui basta, appunto, la trasferta. E varrebbe la pena di finirla qua qualificando incompetente e scentrata stilisticamente la direzione, limitati e modesti i cantanti, indegni del titolo e del teatro, raffazzonato l’allestimento dove abbiamo la versione melodrammatica della strega Malefica. E ancor più malefici sono gli interventi della televisione statale, ossia pubblica, ossia pagata con i soldi dei contribuenti (tanto per essere espliciti): prima, durante e dopo lo spettacolo si attribuisce a questo maldestro riciclaggio di costumi allegorici (risposta parrocchiale al carnevale di Viareggio) una qualità superiore alla media e addirittura cinematografica, partendo dal dato che dal mondo del cinema provengono gli autori della parte visiva dello spettacolo. Di fronte a questa scatola vuota, che insensatamente e inutilmente si colora di blu, nero e poco altro, si vaneggia e si ciancia di “taglio cinematografico” e approccio ottocentesco al Medioevo, quasi che lo stesso non potesse con ben altro fondamento ritrovarsi nelle tele di Hayez e nei bozzetti di Alessandro Sanquirico. Tacciamo dei gesti da filodrammatica di paese della primadonna, abbandonata a se stessa nella disperazione della scena finale, o magari chiediamoci se possa compensare cotanta insipienza l’esibizione di carnefici, che si muovono come i boys di un programma del sabato sera catodico, o ancora a che titolo Isoletta indossi al primo atto una maschera che richiama quella di Hannibal the Cannibal e Alaide, alla scena del processo, una tenuta da dominatrice sadomaso (scelta che pesantemente confligge con il fisico dell’interprete). Forse è il caso di rammentare, in primo luogo a noi stessi, che la propaganda mediatica non risiede solo nello spazio immotivatamente ampio concesso a figure politiche di nessun valore, ma anche nella ripetizione costante e ossessiva che simili spettacoli paraculturali siano, per contro, alta e purificante cultura.
Bastano le battute a metronomo dell’assolo del clarinetto nel preludio o il coro iniziale per rendersi conto che tutti i passi più tipicamente belliniani verranno massacrati da una esecuzione metronomica e quindi inespressiva per definizione. Quando poi arriva il primo ensemble, ossia la stretta del duetto Valdeburgo-Isoletta con ampio intervento del coro arrivano clangori e rumori e suoni dal colore e dall’intensità bandistica. Non ho dubbi che il momento peggiore della direzione sia stata la stretta del duetto Alaide /Arturo staccata ad un tempo veloce, battuto a metronomo e che equivocava sul vero significato drammatico di una stretta belliniana. In dettaglio poi la direzione meccanica e senza colori ha rovinato il personaggio di Valdeburgo, il vero protagonista maschile del titolo. Intendiamoci le parti scritte per Antonio Tamburini sono tutte uguali che l’autore sia Bellini o Donizetti: scrittura centrale (Tamburini non può essere considerato un vero baritono anche se nelle cadenze interpolava acuti baritonali), andamento languido e fiorettatura lieve e delicata, frutto della irripetibile morbidezza di emissione del cantante faentino che se ne serviva per delineare personaggi aulici e nobili. Sempre, anche quando si trattasse di un popolano come l’Israele di Marin Falliero o di una parodia del cantante da opera seria come Malatesta di Don Pasquale. Il fatto che le tessiture di Tamburini siano centrali consente anche ai baritoni dall’emissione verista di arrivare in fondo alla parte, ma non certo di centrare l’interpretazione, strettamente connessa all’emissione del suono ed al legato che l’emissione di scuola ottocentesca comporta. Senza la morbidezza di emissione, senza il legato e la fludità dell’eventuale vocalizzazione il personaggio è, nella migliore delle ipotesi, cantato. Ieri sera l’emissione verista, i suoni costantemente ingolati ed indietro di Serban Vasile hanno tradito Bellini ed il suo elegante personaggio. Offro per esemplificazione delle peculiarità della vocalità l’esecuzione, appena pubblicata su You Tube, del cantabile di Riccardo dei Puritani ad opera non già del celebrato Battistini, ma di un cantante di media carriera: Juan Delor, riprova di un linguaggio comune della vocalità delle voci gravi ancora diffuso e praticato alla fine dell’Ottocento, ovvero settant’anni dopo la prima di Straniera.
La condizione di disporre di cantanti capace di emettere suoni correttamente, di manovrare la voce è – ripetizione maniacale del Corriere della Grisi- l’irrinunciabile condizione per offrire titoli come la Straniera, che del canto e sul canto vivono. Tralascio l’emissione semiprofessionale di Laura Verrecchia (definitasi rossiniana… sic) che ha sgallinacciato le agilità della cabaletta di Isoletta e stentato nel legare i suoni nei duetti, nell’aria e soprattutto nel quartetto finale o i suoni sbiancati di Dario Schmunck, tenore stagionato, scelto -credo- per il solo fatto che avesse già eseguito e pure registrato il titolo. Le premesse sulla vocalità centrale ed incline al canto declamato di Domenico Rejna sono “vox clamantis in deserto” davanti a questa dimessa esecuzione.
E poi la protagonista: il termine presa in giro per questa esecuzione si impone. Alaide non può essere affidata ad un soprano leggero, che manca di ampiezza, sonorità, stonata dalla prima frase della sortita, stridula ed urlante in alto, vuota in basso, quasi afona al centro e quel che è più grave in questo ruolo incapace di legare le frasi, di dare senso a quel che le stesse esprimono. Basta sentire Renata Scotto, prodiga di suoni schiacciati e striduli in alto, ma dalla dizione scolpita, dal legato, rispettoso del senso della frase sia letterale che musicale e dai mille colori uno per parola, uno per ciascuna situazione drammatica e scenica per capire che cosa Bellini, nolenti o volenti, richieda in questa parte di scrittura arcaica e moderna nel contempo (la meno acrobatica di tutta la produzione belliniana ed in generale del melodramma italiano sino al 1840). E siccome le interpretazioni non sono mai a senso unico basta sentire il legato ed il canto strumentale della sortita di Joan Sutherland, che canta la sortita ed il seguente duetto in lingua sutherlandese, per avere una altrettanto valida e contraria esecuzione, che privilegia legato e qualità del suono. In queste condizioni vocali non occorre essere un profeta per ipotizzare alla signora Jicia una carriera biennale e possibili scivoloni davanti a ruoli forse più complessi di Alaide. Quella del canto non è l’arte della cabala. Detto, ridetto e ripetuto sino alla nausea.

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4 pensieri su “Straniera al Maggio Musicale fiorentino

    • quando io leggo la stagione 1933 dove una sera cantava la ponselle (pure con pasero e la stignani) la sera dopo la arangi lombardi con gigli e di li a poco arrivava la raisa sia pure in una parte come Alice e poi Lauri Volpi con Pinza e Basiola ed infine la Supervia con Pinza…….beh insomma

  1. Tralasciando l’esecuzione oggetto della recensione penso quanto la Sutherland ci avrebbe guadagnato con una dizione perfetta perché le qualità vocali le aveva tutte e che meraviglia le arie incise con Conrad! La straniera é un opera straordinaria troppo trascurata all’epoca come oggi e quanto é evocativa la musica che é gotica e classica al tempo stesso. Bellini é straordinario quando si tratta di descrivere la psicologia femminile sembra proprio che si incarni in questi ruoli così travagliati ma sempre con una loro dignitosa compostezza. Che meraviglia!

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