La sera del 6 marzo 1823 e le sette seguenti quando Semiramide andò in scena al teatro la Fenice quasi in forma di selezione, viste le condizioni di salute di tutti i cantanti, che costrinsero a vari e copiosi tagli, il pubblico veneziano assistette all’addio un po’ triste e sottotono alle scene italiane di Isabella Colbran, da poco Isabella Colbran Rossini. La cantante spagnola aveva trentotto anni, cantava da quasi venti e per l’epoca era assolutamente normale che fosse alla fine della carriera. Inutile esercizio accademico indagare i motivi di quello che, a torto, venne definito un precoce declino.
Chi scrive di Isabella, che non sia il suo ufficiale detrattore Stendhal, parla di voce splendida per qualità naturali e scuola, capace di esecuzione di passi di agilità fantasmagorici e di accento drammatico come poche altre cantanti prima e dopo di lei. Era, come altre dive, una tragédienne ovvero capace di rappresentare quel sentire universale ed oggettivo, sigla dell’artista tragico.
Era e non solo per caratteristica vocale il contraltare dell’altro soprano rossiniano destinataria di molte parti Elisabetta Manfredini Guarmani, cui demandate le figure di adolescenti innamorate, oppresse e vittime del fato. Il fato, invece, i personaggi di Isabella lo cavalcavano, sceglievano e gestivano, anche quando erano Desdemona ed Elena d’Angus. E’ questo il primo tratto di Isabella non cantante, ma “persona tragica”.
Vi è, poi, quello vocale riguardo il quale vi sono molti equivoci da chiarire. Primo equivoco la Colbran (fonte sempre Stendhal) progressivamente stonava e si accorciava e soccorrevole Rossini aumentava le fioriture anche nei passi elegiaci e riduceva l’estensione dapprima in alto (da Armida in poi 1817 sparisce il do5) e poi in basso (confrontare le discese di Armida rispetto a quelle di Semiramide).
Quanto al primo punto il progressivo incremento di coloratura può essere un’opinione fondata e documentata. Resta il fatto che i maggiori studiosi rossiniani (Celletti e Zedda) hanno chiaramente scritto che la scrittura rossiniana nasce ornata e che l’ornamentazione si infittisce per tutte le corde vocali, non solo per la malmessa Isabella. Basta scorrere le scritture riservate nel tempo ai tenori baritonali o più ancora ai contralti, dove dalla linea melodica semplice e languidamente fiorettata di Tancredi (Adelaide Malanotte) si arriva alla voluttuosa coloratura di Falliero (Carolina Bassi) e di Arsace (Rosa Mariani).
Anche Stendhal alla fine, contestando l’evoluzione compositiva rossiniana, deve concordare con questa tesi dove l’implemento di colorature non è che una faccia dell’evoluzione del compositore.
In una disamina che cerca di essere completa dobbiamo anche precisare che la opulenta coloratura della fase ultima del Rossini italiano, figlia della decisione del maestro di scrivere in extenso i passi di coloratura, potrebbe essere meglio valutata esaminando come realmente venissero diminuiti ed arricchiti gli spartiti di un Cimarosa o Paisiello o le opere serie veneziane di Rossini. L’operazione è quasi impossibile per la dispersione della più parte degli archivi dei cantanti o il mancato sistematico scandaglio degli archivi esistenti e dei conservatori, che potrebbero riservare sorprese.
Altro aspetto della vocalità di Isabella sempre utilizzato strumentalmente è la progressiva limita estensione. Mi permetto alcune osservazioni. Limitare l’estensione deve essere stata in parte una scelta di Rossini. Basta raffrontare la scrittura di Medea di Mayr 1813 e quella di Elisabetta prima opera scritta per Isabella. Nel primo titolo compare un mi bem 5 e nella scena della furie Medea fraseggia in una zona molto grave. Non è pensabile e non è documentato che nel volgere di diciotto mesi la cantante si fosse molto accorciata. Per altro la tessitura non è molto diversa. E’ assai più verosimile che Rossini, che non amava gli acuti estremi, avesse evidenziato il meglio delle voce della cantante nella zona dove scrisse le opere per la stessa a partire da Elisabetta. Rossini non amava gli acuti estremi in tutte le voci. Famoso l’invito rivolto ad Enrico Tamberlick a lasciare nell’ingresso di casa il famoso do5. Però il maestro scrisse acuti in falsettone sino al do per i baritenori e sino al re per i contraltini (David) o addirittura il mi bem per Giovan Battista Rubini e soprattutto nel 1819 portò Carolina Bassi, contralto di nome, mezzosoprano di fatto, sino al do5 nella scena di Falliero incatenato.
Da ultimo noi consultiamo gli spartiti delle opere scritte per la Colbran. Ignoriamo se esistano (e sul punto tace se non mi sbaglio il biografo ufficiale della Colbran, Ragni) varianti della Colbran ad opera di Rossini, che magari inseriscano passi diminuiti con inserimento di note più acute. E non solo nelle opere di Rossini, ma nel vasto repertorio che la cantante frequentò al San Carlo.
Con tutti questi elementi da tempo si è concluso che la Colbran fosse un mezzo soprano, termine che all’epoca di Rossini indicava la seconda donna e per noi le poderose vocalità delle antagoniste tardo verdiane (categorie entrambe assolutamente estranee alla vicenda vocale ed interpretativa di Isabella).
In nome di questo indimostrato assioma il festival pesarese ha affidato a sedicenti mezzo soprani molti delle parti della Colbran (e non una che non abbia trasportato al basso o rappezzato o accomodato). Preciso che la sola voce di mezzo acutissimo che sia esibita al festival in quaranta anni o quasi ha cantato – strano, ma vero – la sola parte seria di mezzo acuto prevista da Rossini.
Dire che Isabella fosse un mezzo soprano e affidare a soprani limitati (che avrebbero cantato il comico o il comprimariato ai tempi di Rossini e poco dopo le parti di soprano cosiddetto limitato di Donizetti e Bellini) è un errore storico perché significa ragionare con le categorie attuale e nostre e non con le rossiniane.
La prima assoluta e forse sola categoria applicabile è che Rossini vero belcantista non voleva suoni forzati. Quando Giuditta Pasta cantò Bellini e Donizetti che il Romanticismo voleva drammatici con tessitura leggermente più acuta e acuti estremi scoperti si sentì dire che gridava. Gridavano anche Caroline Unger, Giuditta Grisi, la Malibran e quelle che non gridavano o cantavano di preferenza Rossini oppure erano tanto precise quanto compassate (Giulia Grisi) o ancora quando potevano tornavano a Semiramide, Donna del lago e magari Matrimonio segreto (Rosina Penco). Per non forzare la voce ed essere sempre tornite e morbide e nel contempo accentare si deve cantare nella zona in cui Rossini scrive per Isabella.
La prova nelle registrazioni dove possiamo trovare la voce di Semiramide e prima ancora di Isabella non contrabbandata da operazioni economico commerciali.
Il primo pensiero va a Maria Callas nei panni di Armida. La scrittura vocale, che non sembra costare nulla al soprano greco (all’apice della forma tecnica e vocale) consente ad una voce, in natura non bella, di essere dolente, innamorata e furente. In qualche frase per dare risalto al momento drammatico ed alle sue spettacolari qualità vocali la Callas inserisce trasporti. Ma lo stupore è nella qualità del suono che consente di toccare le corde tutte dell’umano oggettivo sentire.
Restiamo a Semiramide e se queste sono le premesse di partenza le due registrazioni che dimostrano l’assunto e non imbrogliano sono quella di Giannina Russ e di Celestina Boninsegna della cavatina di sortita, il famoso “bel raggio lusinghier”. Nella registrazione del 1904 Giannina Russ, che aveva in quell’anno cantato a Lisbona la regina di Babilonia, esemplifica come nessuna il fascino del cantato di agilità affidato ad una voce importante e sontuosa (la Russ cantava Verdi, Meyerbeer, il Mosè di Rossini ed era reputata una Norma esemplare) al centro, capace di piegarsi al virtuosismo senza che venisse intaccata l’omogeneità dei registri ed il legato. Esegue la parte in maniera pressoché letterale, senza, cioé, accomodi e trasporti, irrinunciabili per alcune protagoniste coeve o di poco precedenti.
La stessa serie di osservazioni può essere fatta con riferimento all’esecuzione di Celestina Boninsegna che sfoggia, oltre ad ampiezza di voce e fluidità nei passi di agilità, un registro grave tanto evidente quanto sostenuto, omogeneo con il resto della voce e ben lontano dai suoni privi di appoggio della scalcinata Caballé nelle sue poco decorose esibizioni quale regina di Babilonia (parte mai imparata nonostante il cospicuo numero di rappresentazioni, nonostante l’aiuto di Marilyn Horne).
Queste sono le due registrazioni superstiti, memoria di un’epoca che doveva essere stata per gusto e vocalità quella di una Grisi, una Pasta, una Penco, una Boccabadati (Luigia) e poche altre. Il soprano da Semiramide, oggi come allora, è una categoria che vanta ben poche esponenti per le oggettive difficoltà della parte. A chi abbia una minimale frequentazione della registrazione a 78 giri e del mondo che le stesse racchiudono queste due memorie ricordano una vocalità rossiniana ed una tipologia vocale applicata a Rossini, che ci è davvero lontana.
Sulla voce di Semiramide è, però, necessario un ulteriore dettaglio, anch’esso nell’ottica di escludere che la parte sia di mezzo soprano ed in quella più importante di rispettare le opinioni del maestro. Parto dalla semplice osservazione che Rossini era troppo esperto ed anche sufficientemente distaccato per capire che Semiramide sarebbe stata l’ultima parte scritta per la propria moglie. Che la medesima in quel 1823 fosse provata è evidente non solo dalla Semiramide, ma dalle riduzioni e risistemazioni che subirono Elisabetta regina di Inghilterra e Maometto II (con la precisazione che dalla prima di Elisabetta erano passati 10 anni e che Anna Erisso è una parte pesantissima ed onerosa), ma che dopo di lei altre e differenti cantanti avrebbero vestito quei pesanti panni. Questo non scandalizzava Rossini: basta vedere il capolavoro drammaturgico e vocale che predispone per Giuditta Pasta Zelmira a Parigi nel 1826 per concludere che non era certo Rossini la persona che riteneva Semiramide (ed ogni altra opera) intoccabile. Nel 1863 predispose trasporti per una giovanissima Adelina Patti, che doveva prendere il posto agli Italiani della Grisi e lodò l’esecuzione delle sorelle Marchisio i cui apparati cadenziali sono quanto di più ricco ed opulento gli archivi dei cantanti documentino
La verità era che negli anni 60 dell’800 andavano affermandosi sulla base delle scritture vocali del grand-opéra due categorie di soprani e che quello cosiddetto drammatico era chiamato raramente o mai all’esecuzione di passi di agilità e quindi al soprano cosiddetto à roulade (le discendenti della Damoreau, grandissimo soprano rossiniano per la cronaca) toccò il ruolo di Semiramide. I due nomi più significativi della categorie Adelina Patti e Nellie Melba all’epoca di Rossini, Joan Sutherland, June Anderson, Lella Cuberli nel recente passato e Jessica Pratt oggi. Questa è però un’altra storia, sopratutto è la riprova che la parte poteva essere trasformata ed affidata ad altre voci, ad una condizione che ritengo doveroso ricordare: saper cantare al centro. Anche qui la prova è a 78 giri e viene da Marcella Sembrich, che non cantò mai in teatri il ruolo, ma inserì nella scena della lezione del Barbiere la cavatina ed eseguì in disco ultra cinquantenne le variazioni della Patti o buona parte di esse. A riprova della spostata ottica del personaggio è il fatto che sia in occasione della rappresentazioni di Londra (1878) di Adelina Patti che di quelle di New York della Melba (1892) i passi più lodati ed ammirati furono la cavatina della protagonista ed i duetto con Arsace. E forse non era mutata solo l’ottica del personaggio, era cambiata la mentalità ed il gusto, che stentava ad accettare l’idea che un titolo come Semiramide avesse una carica ed una potenza drammatica, che si estrinsecava nel finale primo o negli scontri fra i due ex amanti ed assassini.
Semiramide era e restava il canto del cigno del melodramma serio prima del Romanticismo.
Rossini – Semiramide
Atto I
Bel raggio lusinghier…Dolce pensiero – Giannina Russ
Disanima molto interessante.
Vorrei dire a questo proposito la mia opinione sul Rof 2019: premesso che Lisinga è ruolo ideale più di Semiramide per la Pratt, relegare quest’ultima a un’opera minore invece che all’evento di maggiore attrazione grida vendetta. La Pratt non è una tragedienne, ma Semiramide va cantata senza affanno, rozzezze e imprecisioni, quindi tra le due doveva essere scritturata lei. Forse il perché è nel fatto che questa Semiramide deve essere di regista e direttore e non, come legittimamente dovrebbe accadere, del soprano protagonista. O anche perché, come dichiarato in una recente intervista – seppur non riferendosi direttamente a questa produzione, ma come dice la canzone “non c’è bisogno della zingara per indovinare…” – la fisicità della Pratt non andava a genio al regista, salvo poi conciare la protagonista in modo orrido, sembra una segretaria brutta e particolarmente bassa (non per criticare l’aspetto fisico, ma di questo si sta parlando, e allora non si può non notare che il volto e l’attitudine della Pratt sono molto più regali e il tailleur non dona per niente alla Jicia). Questo non per difendere un cantante invece di un altro, ma per esprimere dubbi su quello che è di fatto un trionfo annunciato, ma con una sostanza molto problematica (da quel poco che si è visto il regista prende volutamente fischi per fiaschi e il direttore pesta già dall’ouverture).
L’arte del canto ed anche della direzione d’orchestra non sono quella della cabala. Intesa nel senso della partenopea smorfia.
Mi colpisce infatti come già a 17 18 anni certi ruoli o comunque carriere fossero incoraggiate senza problemi.. oggi a 20 anni quando una volta una malibran era già una solida professionista i giovani cantanti sono considerati ancora acerbi o addirittura gli vengono precluso dei ruoli anche solo per via dell’età. È anche vero che stiamo parlando di un epoca in cui già arrivare a 40 anni era fortuna. Se pensiamo a che età é morta la malibran e lo stesso giorno di bellini ma un anno dopo. Complimenti per l’articolo.
Separerei la Pratt dalla Semiramide ora in corso. Il punto è che c è un festival che non è più unnfestival degno di tale nome ma è un circolo di dilettanti che non è mai stato in grado di rappresentare il grande titolo come si deve. La Pratt canti pure la sua Lusinga che basta e avanza. Ma è certo che il rof vada chiuso ed archiviato come una grande istituzione che non può più sopravvivere perché i fini per cui esiste le sono preclusi e da tempo.