Trovatore a Bologna, ossia il Verdi festivaliero.

Per le festività di fine anno il teatro della città felsinea ha ben pensato di allestire un pranzo di Natale a menù verdiano. Potremmo anzi considerare questo Trovatore come l’ideale seconda portata del banchetto, o per usare un termine più appropriato, del refrigerium inaugurato dall’Otello della Fenice.

Proseguendo con la metafora culinaria, la proposta bolognese, al pari della veneziana, dovrebbe avere come immediata e coerente conseguenza la convocazione dei Nas, l’apposizione dei sigilli ai portoni dell’esercizio commerciale, sito in piazza Verdi e l’apertura di un’inchiesta da parte della magistratura competente. Peraltro, il commento in questione avrebbe potuto essere formulato con non minore esattezza al momento della presentazione della locandina dello spettacolo, tanto era evidente dalle pregresse prove degli eletti, che ben difficilmente i medesimi sarebbero stati all’altezza del compito loro assegnato. Per questo non occorrono sfere di cristallo o mazzi di tarocchi: basta un po’ di orecchio, un minimo sindacale di memoria e una conoscenza anche minimale dell’opera in via di allestimento. Ma siccome siamo stanchi e stufi di sentirci ripetere che “l’opera va giudicata dal vivo”, ammonimento che va di norma accompagnato dal peloso consiglio “se non vi piace statevene a casa ad ascoltare i dischi”, abbiamo assistito per ben due recite (23 e 30 dicembre, primo e secondo cast rispettivamente) a questo Trovatore di fine anno, anzi di fine stagione, quella del Comunale coincidendo ormai con l’anno solare.

Nessun interesse nello spettacolo di Paul Curran, la solita zuppa di minimalismo scenografico e abiti ottocenteschi che specie nella gestione delle scene di massa si ispira alla migliore tradizione delle recite in parrocchia e con riferimento ai personaggi principali (Azucena in primis) impone o almeno consente una recitazione sopra le righe che non stonerebbe in uno spettacolo dei Legnanesi. I nuovi e non quelli di Felice Musazzi, ovviamente. Poche soddisfazioni anche dalla bacchetta di Renato Palumbo, che se da un lato tenta di alleggerire quanto più possibile l’orchestra nei passi cantabili, in modo da favorire solisti non certo dotati di voci ampie e potenti, naturaliter verdiane, né assistiti da una tecnica idonea a compensare le carenze di Madre Natura, dall’altro impone tempi spesso dilatati all’accesso, con il risultato che non solo le voci stentano ad arrivare alla fine delle frasi, ma fatalmente si perde, segnatamente nei passi concertati, la coerenza tra buca e palco. Vulgo: ognuno va per i fatti suoi. Nei momenti solenni o concitati (finale secondo, introduzione del terzo atto e terzetto dell’agnizione di Azucena) si assiste poi alla declinazione del c.d. gusto nazionalpopolare applicato a Verdi, che impone assoluta grevità dell’ordito strumentale, assenza di colori e insensata frenesia agogica. Insomma un Verdi festivaliero, se prendiamo come riferimento le più recenti edizioni di un locale e ben remunerato festival, il cui compito sarebbe l’esecuzione paradigmatica dei lavori del quasi concittadino.

Una geremiade che oggi gode di grande fortuna, anche perché fornisce un eccellente alibi a molti addetti ai lavori, pretende che non si riesca più ad allestire decentemente Verdi “perché non ci sono più le voci”. In realtà spettacoli come questo Trovatore dimostrano che a difettare sono in primo luogo i ferri del mestiere, con riferimento tanto a chi canta quanto a chi sovrintende, dirige ed organizza le produzioni d’opera. Ne è preclaro esempio Maria José Siri, ancora nel 2009 passabile Aida in un teatro di dimensioni non certo ridotte come quello milanese, voce in natura da Adina che, applicata lungo un triennio in maniera massiccia al repertorio lirico spinto e a quello del drammatico di agilità, annaspa nella prima ottava, che risulta vuota e sorda, al centro è incapace di legato e difetta di proiezione, giunta sui primi acuti emette suoni più voluminosi ma alternativamente fissi e miagolati, e per conseguenza stonati, e quando tenta le salite (scritte) al do nell’aria di entrata e nella grande scena del quarto atto, così come il re bemolle di tradizione in chiusa al finale primo, produce autentiche urla. Le cose vanno anche peggio quando si sforza di cantare piano, perché frasi come “nol vidi più” al recitativo d’entrata, “sei tu dal ciel disceso” al finale secondo e quelle del “D’amor sull’ali rosee” la vedono prodursi in una raggelante imitazione dei pianini falsettati cari alle imitatrici di Montserrat Caballé, senza che la Siri possa vantare il timbro malioso della Señora o di alcune sue imitatrici, Ricciarelli in primis. A parziale scusante della Siri va detto che la cantante ha dovuto rimpiazzare all’ultimo secondo, nella recita del 30, l’indisposta Anna Pirozzi, cui facciamo molti auguri di buona salute per il fittissimo carnet verdiano che l’attende nel 2013, sommessamente ricordandole che la forfetizzazione della carriera è un tratto delle dive di oggi che un soprano in ascesa dovrebbe sforzarsi di non imitare. E non è il solo.

Vocalmente agli antipodi tra loro, ma egualmente insufficienti, le due zingare. Andrea Ulbrich, voce caratterizzata dallo “scalino”, o meglio dalla frattura dei registri grave e medio-acuto (tratto che alcuni finissimi esegeti dell’ateneo petroniano ritengono caratteristica precipua della voce di mezzosoprano), si è prodotta nella solita alternanza di affondi caricaturali (e per giunta ben poco sonori) in prima ottava e di malsicure scalate all’acuto, compreso il do in cadenza al “Perigliarti ancor languente”, che caratterizza le Azucene di provincia, senza peraltro che la signora potesse vantare la consistenza e la robustezza di una Maria Luisa Nave o di una Bruna Baglioni. Anna Malavasi, consacrata star del canto “giovane” da una famosa trasmissione Rai, ha ribadito la propria natura di soprano lirico (da Mimì, Suzel e Butterfly) cantando di fatto solo su una quinta scarsa, quella che gravita per l’appunto attorno al do centrale del registro sopranile. In basso la signora parla o ricorre a un maldestro (e quindi sordo) registro di petto, risultando regolarmente coperta dall’orchestra, mentre le incursioni all’acuto danno luogo a suoni del tutto incontrollati e spesso striduli (alla cadenza del duetto viene saggiamente evitato il do). È un peccato, perché se la Malavasi sapesse cantare e magari si applicasse seriamente allo studio del canto di agilità, potrebbe agilmente riciclarsi quale Violetta o Luisa Miller, ruoli al momento dominio assoluto dei soprani di coloratura, con tutte le limitazioni che un simile fenomeno comporta. In difetto, c’è sempre l’Alice Ford.

Il Manrico del primo cast, Roberto Aronica (che sostituiva l’inizialmente annunciato Carlo Ventre), avrebbe anche voce sufficiente per incarnare un plausibile protagonista, almeno nella sala del Bibiena. Purtroppo, la scelta di allargare il centro alla ricerca di un suono oscurato e artificiosamente ispessito, malinteso attributo dell’eroe verdiano, e l’incapacità di eseguire il secondo passaggio (prova ne sono i suoni rochi, spoggiati e talvolta stonati prodotti nella zona dei primi acuti) sottraggono alla voce la capacità di legare e agli acuti lo squillo che in natura possiederebbero e che Verdi esigerebbe. Paradossalmente la nota più facile, benché gridacchiata, è il do esibito al finale terzo. Sottodimensionato in tutto, voce adatta a cantare Nemorino o al più Fenton in uno dei teatri di tradizione del circuito emiliano, suo habitat naturale, sistematicamente incapace di articolare le vocali e talvolta anche le consonanti, malfermo nell’intonazione, eunucoide negli acuti, Ji Myung Hoon era il titolare del secondo cast.

Sottodimensionati, ed è in fondo il minore dei problemi, anche i due Conti di Luna, Roberto Frontali e Luca Salsi, il primo voce adatta al più ai ruoli da villain delle opere donizettiane, il secondo (che alcuni aficionados, si spera in assoluta buona fede e scevri di campanilistiche predilezioni, dipingono come una sorta di novello Galeffi nonché erede del gusto di Battistini e magari delle finezze di Kaschmann) verosimilmente più a suo agio nelle opere comiche di Rossini o meglio ancora nelle farse settecentesche, entrambi messi a dura, immane prova dalla tessitura acuta del ruolo, dall’incapacità di cantare piano e legato (ad esempio nella scena della monacazione) senza che la voce spoggi e vada indietro, destinati ad arenarsi al minimo tentativo di smorzatura, a incagliarsi sulla più prudente delle filature. Frontali ha retto di fatto il solo primo atto, crollando nell’intonazione al cantabile dell’aria, mentre Salsi ha malamente gridacchiato, per giunta con poco volume e insufficiente proiezione, fin dal terzetto finale primo. Entrambi danno fondo alle proprie residue risorse al duetto con Leonora, realizzando una scalcinata imitazione del peggiore Leo Nucci, senza però riproporre, del cantante bolognese, la saldezza in alto nella sua trapassata fase migliore.

Ferrando nei due cast era Luca Tittoto, che accanto agli altri poteva passare per un novello Pasero o almeno un giovane Siepi. In assoluto non lo è di certo, perché la voce, chiara e naturalmente sonora, difetta di ampiezza in prima ottava, che risulta piuttosto fioca e fa riflettere come al giovane cantante convenisse ben di più la scrittura da basso cantante del Giorgio dei Puritani, affrontato lo scorso anno nel circuito Aslico. Il tentativo di trovare maggiore sonorità al centro finisce per compromettere la tenuta degli acuti, che risultano spesso duri e al limite della stonatura. Inoltre, da un cantante avvezzo al repertorio belcantistico (Rossini in primis) ci si aspetterebbe una maggiore attenzione alle parche agilità previste, ad es. i trilli su “il buon conte di Luna” e “l’oroscopo volea”, al racconto dell’introduzione.

Una nota finale merita il pubblico, a dire il vero non foltissimo, delle due domenicali considerate. Un pubblico in cui ai loggionisti locali, di veneranda canizie, si aggiungevano amatori provenienti dalle città circumvicine del bacino meridionale del Po. Un pubblico che, con isolate eccezioni, ha tributato un bel successo al primo cast e addirittura un trionfo al secondo. A questo pubblico dedichiamo gli ascolti che seguono. Con l’augurio di trovare o riscoprire, in questo 2013 che si annuncia consacrato a Verdi, la capacità di coltivare memoria storica, onestà di ascolto e coerente valutazione della qualità degli spettacoli loro proposti, seppellendo definitivamente massime o per meglio dire precetti come “bisogna voler bene al teatro” e “largo ai giovani”, che hanno condotto, assieme a molti altri fattori, all’attuale stagnazione, o per meglio dire, emilianizzazione dell’arte verdiana.

Gli ascolti

Verdi – Il Trovatore

Atto I

Tace la notte…Deserto sulla terra…Di geloso amor sprezzatoFranco Bordoni, Ermanno Mauro e Cristina Deutekom (1980)

Atto II

Vedi le fosche notturne spoglie…Stride la vampa…Soli or siamo…Condotta ell’era in ceppi…Mal reggendo all’aspro assalto…Perigliarti ancor languenteIrina Arkhipova e Flaviano Labò (1974)

Tutto è deserto…Il balen del suo sorriso…Per me ora fataleMario Sereni (1971)

Atto IV

Timor di me…D’amor sull’ali rosee…Miserere…Tu vedrai se amore in terraRenata Scotto (con Luciano Pavarotti – 1976)

 

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5 pensieri su “Trovatore a Bologna, ossia il Verdi festivaliero.

  1. Atonietta la “Stella ” è sempre, decisamente, un gran bel sentire.
    Se ci fosse oggi, oscurerebbe parecchie pres…unte verdiane, e altro.
    Voce come una crema, chiudi gli occhi e ti porta dove lei sa, e stai certo che è un bel posto.
    Questa registrazione è una vera chicca, la conoscevo ma era parecchio che non la ascoltavo.
    Grazie Tamburini, per avermelo ricordato.

  2. Chiedo scusa, sono andato su YouTube, alla registrazione della Stella, e ho trovato uno che parla di voce cremosa, sarà mica lei per caso ??.
    Lo dico solo perchè non mi piace passare per uno che copia, ho passato quell’ età da molto e anche ai tempi preferivo passare che ricevere.
    Grazie.

  3. Certo Antonietta Stella è una grande voce,e naturalmente tante volte qui si è scritto,in questo post si deliziano due sensi uno virtuale,con quelle leccornie che pare dicono mamgiami(la seconda portata se non sbaglio è una parmigiana)il secondo senso è reale con questi ascolti,complimenti per la scelta Tamburini, sia quella culinaria,sia quella musicale.

  4. Grande Sereni! Grazie per l’ascolto.
    E un grazie per Labò. Lo ricordo ancora in Turandot e Boheme a Genova negli anni ’70.
    E qui mi partono gli amarcord: in un cinema adattato a teatro d’opera, una sovrintendente capace, grintosa, tenace e competente, riusciva a mandare in scena grandi spettacoli.

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