Fratello Streaming: Falstaff dal Festival di Salisburgo.

falstaffProsegue la serie delle dirette o semidifferite, diffuse dai canali satellitari non meno che attraverso la Rete, dai Grandi Festival Europei, deputati a garantire proposte non genericamente valide (ché per quelle bastano, o dovrebbero bastare, i teatri nazionali, attivi dieci o undici mesi l’anno), ma audaci, innovative, insomma autenticamente all’avanguardia e tali da giustificare i finanziamenti, forse meno cospicui che in passato, ma pur sempre notevoli, che i ministeri dei beni e delle attività culturali dei Paesi in area Schengen riservano a queste benemerite istituzioni. Il Falstaff proposto in questi giorni dal Festival di Salisburgo non solo non risponde a questi criteri, ma neppure realizza la lussuosa routine che era verosimilmente il traguardo di chi ha assemblato lo spettacolo in questione. Parliamo di assemblaggio, e non già di creazione, perché di autentica e assoluta novità non c’è, in questo Falstaff, un bel niente. A partire dalla direzione, raffazzonata e stanca, di Zubin Mehta, da anni prigioniero (involontario?) del blasone di “grande direttore” conferitogli da un’istituzione ormai pericolante come quella del Maggio fiorentino, che alcuni anni fa ospitò una produzione dell’opera verdiana (regia di Luca Ronconi, protagonista Ruggero Raimondi) musicalmente non meno insipida e approssimativa di quella salisburghese. Reduce dal Ballo scaligero, la cui memoria sarà eternata dalle colonne, o per meglio dire dalle veline, della stampa nostrana, specializzata nel riconoscere e difendere a spada tratta, oltre ogni ragionevole senso della misura e del pudore, i “geni compresi” di cui la cultura italiana abbonda, Damiano Michieletto “riscrive”, “rinnova”, “metamorfosa” l’opera di Boito e Verdi ambientandola in una casa di riposo per musicisti, che richiama l’ospizio donato dal compositore alla città di Milano. Anche qui la transavanguardia michielettesca arriva, come minimo, con vent’anni di ritardo: sono infatti due decenni abbondanti (come minimo) che vediamo il panciuto cavaliere agire ovunque meno che nell’Inghilterra del regno di Enrico IV, con una netta predilezione per le ambientazioni in epoca vittoriana e negli anni Cinquanta del ventesimo secolo. Almeno regie come quella di Willy Decker, in cui l’azione si svolgeva nella stazione di Windsor, o quella già citata di Ronconi, con le sue villette in stile Tudor, mantenevano una connessione, per quanto remota e allusiva, con il testo di partenza, mentre in questa versione “Casa Verdi” non si va oltre il (solito) gioco di teatro nel teatro (il protagonista è un anziano baritono che sogna, o forse ricorda, le vicende dell’opera di cui è stato, o avrebbe voluto essere, protagonista nella sua carriera), mentre lo spirito di stanchezza e decadenza che aleggia nell’opera (“tutto declina”) è confinato al solito impiego, massiccio quanto poco ispirato, delle comparse (gli ospiti della casa di riposo) e alla scena finale, in cui la beffa ai danni di Falstaff si trasforma in un fin troppo esplicito funerale, con tanto di secchi di melma gettati addosso al “cadavere”. Peccato che questo “Al calar del sipario” in salsa verdiana non solo soffochi lo spirito travolgente e beffardo della commedia per musica (spirito già compromesso dalla fiacca direzione musicale), ma non riesca neppure a dettare ai solisti gesti ed espressioni, che vadano oltre il livello di una filodrammatica di provincia. Quanto al canto, vorremmo limitarci a una sola riflessione. I protagonisti, Ambrogio Maestri e Fiorenza Cedolins, avevano affrontato i rispettivi ruoli nel dicembre 2010 al Liceu di Barcelona. Una di quelle recite è stata radiotrasmessa e ne proponiamo di seguito un significativo scampolo. Chiedendoci, e chiedendo ai nostri lettori, quale sia il grado di preparazione professionale di chi, alla luce di una prova siffatta (e che non può e non deve essere ignorata, se non altro perché diffusa in tutto il mondo e per così dire ancora oggi a portata di click), scritturi, a quasi tre anni di distanza, i medesimi esecutori (già claudicanti, per non dire di peggio, all’epoca di quella registrazione) per un palcoscenico con la storia e il prestigio di Salisburgo. È vero che la fede nei miracoli è una virtù sempre molto apprezzata in un Paese cattolico quale l’Austria (e l’Italia), ma sfide del genere assomigliano alle macchinazioni erotico-finanziarie di Sir John Falstaff: tempo, fatica e soldi (pubblici) sprecati.

 

Verdi – Falstaff

Atto II

Alfin t’ho colto raggiante fior – Ambrogio Maestri e Fiorenza Cedolins (2010)

 

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4 pensieri su “Fratello Streaming: Falstaff dal Festival di Salisburgo.

  1. allora con questo cast casa verdi era una buona idea! con il prossimo direttore e sovrintendente della scala , attesa la frequentazione del teatro di zurigo è certa in scala la presenza in questo come in altri titoli dei due commendevoli artisti da te citati. ottimo, non aspettavamo altro!

  2. Peraltro, stupidaggini registiche a parte (qualche volta davvero si faticava a capire che senso avessero i movimenti dei cantanti; come si notava con l’amico Massimo Fazzari in chat, pareva che Michieletto godesse nel farli cantare nelle posizioni le più scomode possibile), anche negli altri ruoli non è che le cose andassero meglio. Cavalletti e la Kulman erano inadeguati, per usare un eufemismo. Ed è francamente scandaloso che per parti come quelle di Bardolfo e Cajus siano stati ingaggiati di fatto due attori di prosa (se penso che nel video postato con la Kabaivanska e Taddei, Cajus era De Palma…). Un’ultima annotazione su Mehta: secondo me la sua fama di grande direttore non è immeritata. Anche come inteprete verdiano (in epoche oramai lontane, ahimé) ha detto comunque qualcosa di quanto meno non banale (Aida, Trovatore, Traviata). Effettivamente, oramai la sua vocazione “marchettistica” pare tuttavia aver preso il sopravvento. Per dire, nel Falstaff, senza scomodare i grandi nomi, mi pare che abbia dato letture molto più interessanti un direttore tutt’altro che “verdiano” come Colin Davis.

  3. Cio’ che mi offende di questa esecuzione ( nel senso di esecuzione capitale !) del Falstaff di Salisburgo e’ la completa estraneita’ teatrale e vocale rispetto all’opera di Verdi e Boito. Del vecchio aristocratico squattrinato che si rende conto che il tempo e’ passato e del mito di rinnovamento cantato dall’ottuagenario Verdi ( come scrive Bianconi) non vi e’ traccia, il “declamato melodico” di cui parla Mila a proposito di quest’opera e’ sostituito da un vergognoso parlato, un interprete -che se non sbaglio dovrebbe essere un basso-baritono-ormai senza voce, altro che zona di passaggio sul re3, che gia’nel 2001 , con Muti alla Scala,mostrava problemi col sostegno del fiato e con fraseggio inadeguato al ruolo, tutto cio’rende inutile andar a fare confronti con le grandi interpretazioni del passato. Verdi ( come scrive Porter) considerava ridicolo per un pubblico sedersi ad assistere un dramma senza la possibilita’ di comprenderlo, ed inoltre la capacita’ di comunicare dei suoni della sua musica deve venire prima di tutto.

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