Sorella Radio: Simon Boccanegra inaugura Torino

sorella radioIl Boccanegra, che ha inaugurato la stagione torinese è stato deludente. Mi spiego: l’orchestra di Torino è attualmente, in grazia della presenza costante di Gianandrea Noseda, la compagine, che suona meglio in Italia. Ove con “suonare meglio” si deve intendere qualità del suono, equilibrio fra le singole sezioni orchestrali, pulizia e precisione di attacchi. E questo si sente perché l’orchestra anche in questa occasione ha spiegato le proprie qualità: basta sentire le prime batture del prologo, dove dal tono discorsivo dell’ingresso dei due mentori di Simone si passa alla risonanza della prima apostrofe di Paolo contro il patriziato genovese, piuttosto che l’introduzione al Palazzo degli Abati o le scene descrittive come la sortita di Amelia al primo atto o il breve monologo di Simone al terzo atto. E se debbo essere sincero si può scandagliare lo spartito e difficilmente si troverà il suono orchestrale carente nel sottolineare la situazione drammatica. Con i tempi che corrono non è poco, ma rimane il punto di partenza, non di arrivo, perché per proporre un Simone di rilevanza ci vuole altro. Ci vogliono bacchetta e cantanti con buona pace  dei fautori di taluni Simone, sostenuti da direttore in principalità. E preciso, richiamando il pensiero che Verdi spese per le parti femminili di Forza, che se per gli amorosi basta cantare, per il protagonista ed i suoi antagonisti sono irrinunciabili canto ed interpretazione.

Distinguiamo fra direttore e compagnia di canto, precisando, però, che la compagnia di canto è quella che la bacchetta ha selezionato ed i cui limiti di gusto il concertatore neppure ha tentato di emendare. Per i limiti di tecnica di canto riferibili alla compagnia scritturata in Torino vi è buona teoria di santuari. Pare efficacissimi, per altre e più meritevoli cause.

Come già accaduto con Don Carlos i tempi sono stati genericamente piuttosto spediti. Ottima scelta tenuto conto del palcoscenico, scelta che non significa direzione monocorde o limitata. Basta sentire l’aria di Fiesco fortemente cadenzata negli accompagnamenti, oltre che di tempo sostenuto, che ha evitato a Michele Pertusi, che non è un cantante da Verdi, di esibire ulteriori limiti, lo stesso valga per il duetto fra suocero e genero al prologo dove l’energico accompagnamento ha egregiamente supplito i limiti naturali del basso e quelli tecnici del baritono. Ancora i tempi sostenuti dei due duetti del primo atto non hanno privato i numeri del giusto contrasto fra languore e slancio amoroso del primo o la tenerezza del secondo, tratto questo comune a tutti i duetti padre-figlia di Verdi ed anche il ritmo sostenuto del concertato del Palazzo degli Abati ha contribuito a rendere l’affresco storico, che del Simone 1881 è la più evidente qualità. All’anatema finale l’orchestra ha fatto la sua parte protagonistica. Delle felici introduzioni al primo e terzo atto ho detto e devo aggiungere che nell’accompagnamento alla scena di Paolo e degli altri congiurati al prologo il colore orchestrale era davvero sinistro.

Analogamente al Simone di Parma è stato il direttore d’orchestra a cantare. Possiamo anche discutere se e perché Jader Bignamini abbia cantato meglio di Gianandrea Noseda, che pure dispone di maggior esperienza e di miglior strumento orchestrale. E qui la risposta sta nella compagnia di canto perché l’ascolto comparato delle due recenti esecuzioni dimostra inesorato che i direttori d’orchestra possono fare molto, ma non l’impossibile. E fra una compagnia di canto con limiti come quella parmigiana e quella impresentabile di Torino le differenze si sono sentite. Talora, aggiungo, talune colpe vanno cercate anche nel concertatore.

Nel caso di Paolo Albiani, scempiato da Mastromarino credo che Noseda abbia preso un abbaglio interpretativo consentendo al cantante tecnicamente inesistente, per simulare ironia, suoni aperti, parlati e chiocci della peggiore schiera dei buffi parlanti. Paolo è un baritono serio  e come tale deve cantare. Anzi la perfidia per essere validamente espressa richiede la capacità di cantare piano a mezza voce e di dare colore, non caricare ogni suono. Quello che ha combinato nella scena del prologo Mastromarino è, per parafrasare Celletti, “da museo degli orrori”. Non sta certo a me ricordare che Paolo Albiani è una sorta di prodromo di Jago.

Un altro punto debolissimo del cast è stata la protagonista Maria Josè Siri. Voce in natura da soprano lirico leggero, da un paio di stagioni va sbraitando Aide ed altri titoli del tardo Verdi simulando voce importante e sontuosa al centro. Allora chiariamo: Maria Boccanegra è per scrittura vocale,  strumentale sotto il canto e colleghi da contrastare soprano drammatico quanto Aida, Leonora di Vargas;  che un conto è definire lirico il carattere del personaggio ed un conto farla rientrare nella categoria vocale dei soprani lirici (Mimì e Manon ne sono l’archetipo). Aggiungiamo una scadente cognizione tecnica ed avremo una Amelia che dal fa acuto in su urla sia che canti piano sia che canti simulando sonorità cospicue. Per tutta la sera ogni salita è stata portata a termine con evidente sforzo, suoni spinti, ballanti ed i tentativi di smorzare ed addolcire nell’ottava acuta abortiti tutti per la qualità del suono e l’inesistente sostegno del fiato. E questo già a partire dal duetto con Simone al primo atto per arrivare alle arrancate arcate di suono al finale dove Amelia suona su tutti (soli, orchestra e coro) la disperazione di figlia.

Del pari il protagonista. Nessuno nega che Ambrogio Maestri avesse una voce di qualità (ed anche di quantità). E’, però, anni che parla maldestramente Falstaff, credendo che la parte sia da buffo caricato e non è  in grado di legare (stretta del duetto con Amelia-Maria), di cantare piano (scena della morte dove ogni tentativo di modulazione si è risolto in ansimanti suoni e fiati spezzati),  di svettare (prime frasi dello scontro con Fiesco al prologo). La zona acuta, si badi non gli acuti estremi, è compromessa e allora rimane parlare Falstaff ed affabulare Dulcamara, il canto verdiano con le sue tessiture acute, l’obbligo di fraseggiare e modulare su mi e fa, che sino a Donizetti sono acuti a pieno titolo, sono altra impossibile cosa.

Rimane Roberto di Biasio, ma trattasi di un tenorino in una parte del tardo Verdi, che richiede ampiezza, squillo e capacità (fu Tamagno il primo Gabriele Adorno della versione 1881) di cantare in zona di passaggio e se spontaneamente regge per dote di natura le tessiture acute (terzetto Amelia Boccanegra al secondo atto, duetto con Fiesco al primo), pur rimanendo un tenorino soffocato dal pesante orchestrale, stenta e affonda nelle frasi più apertamente drammatiche e verdiane della prima sezione dell’aria o dell’irruzione di Adorno al palazzo degli Abati, basta sentire per rendersi conto dell’inadeguatezza del cantante e della fatica che gli costa il ruolo.

Quanto a Michele Pertusi, che nella fase finale della carriera si è trasformato in cantante verdiano posso dire che non basta la penuria di esponenti di tale categoria per diventare un buon cantante verdiano. Oltre tutto Pertusi oggi in difficoltà a legare e sostenere le frasi ampie (duettino con Gabriele, sezione conclusiva della sortita), da sempre poco sonoro nella zona grave non è mai stato assistito da qualità e risorse interpretative, che possano compensare i limiti vocali. Paradossalmente la parte per lui oggi sarebbe don Pasquale. Ma visto l’esito di quello scaligero il condizionale è obbligo.

 

3 pensieri su “Sorella Radio: Simon Boccanegra inaugura Torino

  1. per quanto sentito e per quanto posso capire sono completamente daccordo con lei, la seconda volta ho assistito alla recita con la compagnia b ed e’ stata la prima volta in vita mia che non ho retto fino alla fine. nella prima rappresentazione ambrogio maestri mi faceva tenerezza ma purtroppo…………,grazie per i suoi articoli.

  2. Buongiorno. Scrivo da Torino: ho assistito oggi alla pomeridiana, con il primo cast, lo stesso della recensione ad eccezione di Paolo Albiani che era oggi interpretato da Devid Cecconi in luogo di Alberto Mastromarino. Non molti applausi in corso d’esecuzione ma cordiale, e a Torino direi consueto, consenso in chiusura un po per tutti, soprattutto per Pertusi, Maestri e Noseda. Personalmente sono piuttosto freddo: nessun disastro, direi, perche’ non posso dire che qualcuno abbia particolarmente urtato le mie orecchie ma, al contempo, nessun entusiasmo da parte mia; cioe’, tanto per fare un paragone, l’ormai vecchia edizione de “I Due Foscari” trasmessa da RAI5 questa mattina presentava soprano e tenore (Cupido e Roark-Strummer) secondo me peggiori di quelli uditi nel pomeriggio dal vivo: De Biasio non mi e’ sembrato particolarmente flebile ma bisogna considerare che ero in prima fila, mi e’ parso invece piuttosto grezzo e buono solo in alcuni momenti, quando cantava piano: inizio dell’aria “Cielo e pietoso rendila” e alcune battute del duetto del 2^ atto, segnatamente “parla in tuo cor virgineo”, in altri momenti si e’ proprio mangiato la parola “pel cielo, uom possente sei tu”. “cielo” si e’ proprio perso. La protagonista: in effetti in alto era piuttosto stridula e, in complesso, anche da lei nessun entusiasmo, pero’ credo ci sia di peggio. Maestri apprezzabile quando cantava piano ma, a voce piena e in acuto, piuttosto sbracato (esempi: “di mia corona il raggio” al duetto del 1^ atto e alcuni momenti della scena del Consiglio ma sono solo esempi), mi aspettavo di piu’ da Pertusi: leggo in questa recensione ma anche in altri articoli del Corriere, che Pertusi non e’ cantante verdiano: io non ho competenza per esprimere un parere ma posso dire che il Pertusi dell’Oberto trasmesso da RAI5 due settimane fa, che risale a 14 anni fa e che, tra l’altro, possiedo anche in disco, mi sembra decisamente superiore a quello ascoltato oggi: immagino che i 14 anni trascorsi abbiano un significato in tal senso. Devid Cecconi non e’ un modello di morbidezza e, quindi, anche in questo caso, nessun entusiasmo ma neanche nessun orrore. Da ultimo, la parte visiva: l’allestimento classico poteva, per i miei gusti, giocare in favore di un giudizio positivo ma sono un po deluso anche in questo senso: belli i costumi, cosi’ cosi’ le scene ma piuttosto banale la regia, con, in aggiunta, alcune cose che proprio non ho capito: nel 1^ atto, proprio all’inizio, un giovane addormentato vicino alla panca viene svegliato e accompagnato fuori da una delle ancelle di Amelia/Maria: ma chi e’ costui ? Durante la scena del Consiglio Adorno dapprima circondato dal “servizio d’ordine” riesce troppo facilmente a liberarsi per scagliarsi contro il Doge, prima di cio’ “consoli del mare custodite le soglie” con un modo davvero strambo di sbarrare la strada ai possibili fuggitivi (tra cui ovviamente Paolo), poi nel 3^ atto durante la prima parte un gruppo di persone che sta “raggruppando delle reti ?”: mah un po fuori luogo accanto a uno a cui viene riconsegnata la spada e un altro condotto al patibolo, poi il Doge che resta in piedi fino a un istante prima di morire e poi crolla al suolo, ma un veleno a lento effetto dovrebbe portarlo prima ad accasciarsi, ma comunque, al di la’ di questo, recitazione un po troppo banale ed enfatica, soprattutto Adorno ed anche Pietro. Cordiali saluti.

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