Un direttore al giorno… / 21. “La gazza ladra”, Sergiu Celibidache.

Immagine anteprima YouTube

Celibidache è un interprete particolare, così il suo Rossini è diverso da tutti gli altri: la sinfonia della Gazza ladra viene rivissuta con un nuovo passo, in una solennità e austerità che rende perfettamente la contraddizione di questa grande opera (e forse la ragione della sua poca riuscita), ossia una musica di livello paragonabile solo al Tell e a Semiramide, applicata ad un libretto inadeguato e ad un argomento basso.

16 pensieri su “Un direttore al giorno… / 21. “La gazza ladra”, Sergiu Celibidache.

  1. Condivido in parte le tue riserve sul libretto, ma credo che anche in questo caso le ragioni dell’attuale “poca riuscita” e scarsa diffusione dell’opera siano ricollegabili al particolare status del genere semiserio e all’incomprensibilita di molti suoi codici per la recezione odierna. Ne avevamo parlato a proposito della Linda, mi pare. Ad esempio, oggi il ruolo di basso più interessante e importante dell’opera (vocalmente, musicalmente e drammaturgicamente) risulta certo il podestà. Non a caso fu la parte di Ramey, splendido in quel ruolo. La cosa interessante e apparentemente incomprensibile è che all’epoca la Gazza fu un successo personale della star Filippo Galli (proprio il riferimento ideale della vocalità di Ramey) che però interpretava…Fernando, ruolo che oggi risulta certo meno protagonistico. Perché? La ragione è culturale: Fernando è un disertore, e la figura del disertore aveva all’epoca un’aura mitico-tragica ben radicata nell’opera semiseria e nell’opera-comique, a partire almeno da Le deserteur di Monsigny. L’inevitabile perdita di queste “chiavi” legate all’attualità storico-politica dell’epoca non aiuta certo l’assimilazione di un’ opera per molti versi bellissima come la Gazza.

    • Se ne deduce che oggi l’aura mitico-tragica l’abbia la figura del Podestà, che abusa della sua qualità per tentare di piegare innocenti fanciulle alle sue turpi voglie… In effetti è una figura attualissima :)

      scherzi a parte, Fernando è una grande parte tragica, mentre gli altri due bassi di una certa consistenza, Fabrizio e Gottardo, presentano una scrittura vocale più vicina al genere comico (in Rossini sempre irto di difficoltà, al pari di quello tragico). Oltretutto le situazioni sceniche di cui è gratificato Fernando sono molto più varie di quelle che spettano agli altri due bassi, e questa circostanza credo avesse il suo peso per un celebre attore oltre che esimio cantante, come Filippo Galli (che non a caso, nella Cenerentola, cantava Io scatenato Don Magnifico).

      • Non sono del tutto d’accordo con quello che dici. Innanzitutto non mi sembra il caso di accomunare Fabrizio e Gottardo: Fabrizio è un comprimario, per quanto di rilievo, mentre il podestà è fra i protagonisti assoluti dell’opera, e all’epoca a interpretarlo fu Ambrosi, che pur non essendo celebre quanto Galli era comunque fra i principali bassi italiani. Poi tu dici che Fernando si trova in situazioni di maggior varietà: forse, però io direi che come personaggio il podestà è molto più vario e diversificato. È vero che ha accenti comici, soprattutto nella cavatina iniziale, ma ha anche parecchi spunti vocali da autentico “villain” serio: ci fa ridere ma è pericoloso, e fa paura come pochi personaggi rossiniani.Del resto pare che Ambrosi (che non era certo un buffo alla Pacini) enfatizzasse proprio gli aspetti più negativi del personaggio. Galli, che come tu stesso ricordi aveva sia la corda comica che quella seria, in teoria avrebbe potuto sguazzarci. Quantitivamente il podestà canta in più ‘numeri’ di Fernando, e se Fernando ha un’aria Gottardo ne ha due, di cui la seconda è una grande aria in due tempi con cori e pertichini. E però è vero che tutti questi elementi dovevano passare in secondo piano, e che per Galli come per il pubblico il vero “grande personaggio tragico”, come dici tu, era Fernando. Ma lo era soprattutto per la carica “iconica” che in quel periodo postnapoleonico la figura del disertore portava con se. Stendhal nota giustamente che é inverosimile che Fernando non si sia sbarazzato della divisa, ma si tratta in realtà di un preciso ‘gesto’ drammaturgico: Galli DOVEVA mostrarsi al pubblico nell’evocativa immagine del soldato disertore (fra l’altro immortalata in un ritratto). Ora che questa carica evocativa si é dissolta, un interprete come Ramey ha preferito dedicarsi alla figura del podestà, la cui attualità fra l’altro, come notavi, non passa mai di moda..:)

        • Credo che per il pubblico di oggi (e ovviamente mi ci metto dentro per primo) sia difficile comprendere fino in fondo come la lunghezza di una parte non sia necessariamente l’elemento decisivo per definirne l’importanza. Fernando entra di fatti con un recitativo accompagnato, anzi una grande scena tragica che sfocia direttamente nel duetto con Ninetta, alla scena col Podestà lo apostrofa con una solennità che sembrano far presagire Assur al finale primo di Semiramide, e al secondo atto, dopo l’aria canonica (forse la cosa meno interessante), ha l’entrata alla scena del tribunale, un grandioso colpo di teatro oltre che di fatto un finale d’atto, che cade a metà del monumentale secondo atto dell’opera. Di fronte a un padre così fiero e appassionato, che farebbe impallidire molti epigoni anche verdiani, mi pare di poter dire che la parte del Podestà risulti un poco unidimensionale e non così interessante. Ovvio che poi vada, nondimeno, cantata alla perfezione, come il solo Ramey ha saputo fare!

          • Beh, ovviamente sul fatto che la lunghezza di una parte non corrisponde necessariamente alla sua importanza concordo appieno. Ed è verissimo che Rossini attua una serie di strategie per valorizzare al massimo la parte di Galli, così da compensarne la durata non molto estesa. Solo che, come dici anche tu, queste strategie oggi non sempre vengono riconosciute, ed a mio avviso questo accade particolarmente in un genere ora difficilmente ‘decodificabile’ come quello semiserio.

  2. Ascoltare la lettura di Celibidache dopo le gare di velocità dei colleghi, anche illustri, può facilmente risultare straniante. Ciò che si dovrebbe cogliere è la capacità del direttore rumeno di dipanare un discorso coerente, unitario, in cui i passaggi da una sezione all’altra del brano risultano fluidi, logici, naturali, e non meccaniche giustapposizioni di note senza contesto. A proposito del tempo, mai i silenzi mi sono sembrati così giusti, onde creare la giusta attesa e tensione. Poi la trasparenza del tessuto orchestrale e la qualità del suono, la precisione dell’assieme, i crescendo così esattamente calibrati, considerando anche che si tratta di un’esecuzione dal vivo, sono tecnicamente straordinari.

  3. Beh la lentezza – come la velocità – non vuol dire nulla intrinsecamente, non è né profonda né superficiale. Ridurre Celibidache ai tempi lenti significa non coglierne l’arte. Ciò che davvero lascia ammirato, invece, è – come giustamente dice Mancini – l’esattezza dei cambi di tempo e la perfetta fluidità delle diverse sezioni, evitando l’odiosa scansione di marcetta paesana che, ad esempio, Toscanini e molti altri impongono al brano. Devo dire che la lettura di Celibidache è inferiore solo a quella di Furtwangler. Entrambi comunque si distinguono per la profondità di lettura e si differenziano nettamente dai loro colleghi.

    • Ciao Duprez! Scusami, ho sbagliato a non virgolettare la sentenza, dacché è una citazione dello stesso Celibidache. In poche parole: ” il tempo è una condizione attraverso la quale la moltitudine di informazioni contenuta nel materiale sonoro possa manifestarsi ed essere ridotta ad una (inteso come numero, non articolo; ovvero una ed una soltanto) unità”. Questo vuol dire che il tempo, inteso come velocità, devo essere lento da permettere il prodursi di tutti i suoni armonici che costituiscono appunto la moltitudine di cui sopra è danno luogo alla ricchezza d’espressione. Un tempo troppo lento naturalmente rende possibile questo prodursi per ogni singolo elemento, ma non la riduzione della moltitudine ad una unità, poiché tutto si disgrega. Da tutto ciò in combinazione con l’acustica del luogo (che varia anche a seconda di quante persone sono presenti in sala al concerto, per esempio) nasce il tempo giusto: è l’acustica che stabilisce quanto lento deve essere il tempo.

      • Che il tempo debba essere lento sempre resta una cazzata, l’avesse pure detta Gesù Cristo… Bisognerebbe evitare di prendere ogni boutade sparata da Celibidache per una sorta di dogma… Altrimenti si finisce per credergli davvero quando diceva che Furtwangler non sapeva dirigere ed era un pessimo direttore. Peraltro non sempre i tempi di Celi sono lenti..

        • Duprez, ma quale boutade: questo è un principio chiaro e definito.
          Riguardo a Furtwängler: ne parlava come uno dei più grandi musicisti; ma sprovvisto di tecnica direttoriale: ti sembra così impossibile?

          • Aggiungo che richiede tempo, anche molto, perché possa essere compreso, ovvero vissuto e realizzato.

          • si, mi sembra un’autentica cazzata, così come il concetto per cui nella lentezza vi sarebbe profondità: scemenze pure che disonorano chi le ha dette e chi le piglia per verità assolute

Lascia un commento