Guillaume Tell a Bologna

11_Guglielmo-TellCon un pervicacia eguagliata solo dai proclami di certa stampa (che per salvare in qualche modo “la baracca” si spinge, more solito, a dubitare della qualità del titolo) la produzione pesarese del Tell viene riproposta, dopo Torino, a Bologna, teatro del neo insediato direttore musicale Michele Mariotti. Nella città petroniana il titolo mancava dal 1957, quando era stato proposto, nella versione tradizionale in italiano, con Mario Filippeschi, Gabriella Tucci, Giuseppe Taddei, Ivo Vinco e la bacchetta di Francesco Molinari Pradelli. Con questa annotazione storica, e con la proposta del secondo atto di quella ormai remota realizzazione, potrebbe chiudersi il resoconto di questo Tell, ché le considerazioni circa lo spettacolo di Graham Vick e la direzione musicale sarebbero le medesime, o ben poco dissimili da quelle già esposte a proposito delle rappresentazioni adriatiche e sabaude. Ma forse, tutto sommato, qualcosa si può aggiungere. Ripensato (così il dépliant pubblicitario del Comunale) per il teatro bolognese, l’allestimento risulta ancora più denso di trovate discutibili quanto rancide, ché le limitate dimensioni del palcoscenico (limitate rispetto a quelle dell’Adriatic Arena e del Regio) inducono il regista, o meglio chi ha ripreso la regia (il signor Vick sta al momento curando per il circuito Aslico un Don Giovanni a base di smutandamenti e aghi in vena), non già a cassare almeno le più marchiane “invenzioni”, bensì a concentrarle in uno spazio tanto ridotto, da evocare a tratti, ad esempio al finale ultimo, il magazzino di un robivecchi specializzato in arredi d’interno anni Settanta. Tacciamo poi della banda di ragazzini, che inutilmente riprende e amplifica il tema dello sfruttamento dell’infanzia disagiata, già sufficientemente in evidenza nella concezione originaria dello spettacolo. Quale il rapporto con il testo e la poetica del grand-opéra, confessiamo che ancora ci sfugge.

L’orchestra ha esibito un suono lutulento e goffo, con frequenti “strappate” degli archi (fin dall’attacco dei violoncelli all’Ouverture), spernacchiamenti diffusi degli ottoni, un senso generale di confusione e scarsa cura della tenuta d’assieme, inficiata anche da tempi dilatati oltre ogni logica e umana sopportazione (tutto il secondo atto, che suona fiacco e tedioso – un risultato non da poco, se si ricorda il famoso giudizio di Gaetano Donizetti) e volume ora cameristico, ora da banda di paese (strette dei finali d’atto). Il peggio è che questa direzione non crea un’atmosfera, non indulge a un colore che faccia pensare ora all’idillio alpestre, ora all’arrogante violenza degli oppressori della casa d’Asburgo, ora all’anelito indipendentistico del popolo svizzero (che la regia muta in sottoproletariato orobico). Colori e atmosfere sono, al più, da opéra comique, più spesso da farsetta settecentesca, come nel caso dei balletti, compitati metronomicamente (ma con seria difficoltà a rispettarlo, il metronomo, ad esempio al passo “Quell’agil piè”, in cui coro e orchestra vanno letteralmente per proprio conto) oltre che scempiati da una coreografia che al primo atto evoca un rodeo e al terzo banalizza l’allusività del testo (la danza dei soldati austriaci con le donne del popolo oppresso) in un’orgia di violenza che rimanda, più che a Pier Paolo Pasolini, a un Giuseppe Patroni Griffi filtrato dal gusto di Catherine Breillat.

MichaelSpyresLa vera e sola ragione d’interesse del cast, e quindi della produzione, è costituita da Michael Spyres, che dopo Caramoor, Bad Wildbad e Bruxelles affronta nuovamente la parte di Arnoldo. Rispetto all’Aureliano in Palmira dello scorso agosto, la voce suona un poco meno ingolfata e artificiosamente scurita, complice anche la tessitura decisamente più acuta. Purtroppo, la tessitura e la necessità di cantare e fraseggiare sulla zona del secondo passaggio evidenziano l’impossibilità, per il tenore americano, di salire agli acuti senza che la posizione del suono, e di conseguenza la natura e la consistenza dello stesso, muti quasi a ogni battuta. L’inesistente concertazione di Mariotti e la scelta di proporre la parte integralmente o quasi (si registra un taglio al da capo del duetto con Matilde) fanno sì che l’esecutore resti “in riserva” già all’inizio del secondo atto, compiti con fatica il trio patriottico e la congiura e cada miseramente alla grande scena finale, con un cantabile carente sotto il profilo del legato e una cabaletta affrontata con volume al lumicino e acuti sistematicamente bianchi e chiocci. Con altro direttore, e con un diverso approccio al titolo, il risultato sarebbe probabilmente stato, se non pienamente soddisfacente, sicuramente meno aleatorio. Peraltro l’aleatorietà e l’incostanza del risultato sono le vere cifre caratteristiche di questo cantante, un tempo assai promettente.

Verrebbe voglia di liquidare il resto del cast con un sintetico “male gli altri”. Per dettagliare maggiormente: abbiamo un Tell (Carlos Alvarez) becero e veristeggiante, che ringhia la foga del capopopolo e muggisce l’ansia del padre in procinto di attentare alla vita del figlio, un Walter (Simon Orfila) che manca della cavata del basso autentico e difatti risulta non pervenuto alla scena della congiura, un Gessler (Luca Tittoto) che canta e si muove come un Dandini della profonda provincia anni Cinquanta (e risulta, ciononostante, il migliore del “parco bassi”), un Melchtal (Simone Alberghini) la cui voce roca e ballante (oltre che affetta da un fastidioso effetto di riverbero, che interessa peraltro anche altre voci del cast, protagonista compreso) induce a rimpiangere che non sia stato convocato, a parità di condizioni vocali, Ruggero Raimondi, anche in deferente omaggio alla carriera del basso bolognese, sovente applicato a Rossini. Nessuna distinzione, in termini di ampiezza e colore vocale, tra le diverse voci gravi maschili, così come tra il fioco Rodolfo di Alessandro Luciano e il Pescatore di Giorgio Misseri, in affanno sui do previsti da una parte, che in sostanza a quelli è limitata e circoscritta. La Matilde di Yolanda Auyanet canta discretamente la cavatina, pur con fiati corti e suoni fischianti sui primi acuti, stenta al duetto con Arnoldo e dalla grande aria indulge ad urla scomposte, che trovano il loro apogeo (si fa per dire) nell’apostrofe a Gessler al finale terzo. Non meno vetrosa in alto Mariangela Sicilia quale Jemmy, ingolata e non autentica voce di contralto (al massimo soprano lirico accorciato in acuto) Enkeleida Shkoza quale Edvige. Non destano, insomma, meraviglia i numerosi posti vuoti in platea alla prima rappresentazione, i palchi rimasti chiusi in buon numero, un loggione popolato solo nella prima fila ed applausi conclusivi durati meno di dieci minuti, a dispetto della foga di alcuni entusiasti ed invocanti il nome del direttore e dei battimani che gli esecutori hanno riservato a se stessi e ai colleghi, comprese le prime parti dell’orchestra, schierate al proscenio come se si fosse giunti al termine di una Tetralogia eseguita senza soluzione di continuità o con minimali pause.

 

Rossini – Guglielmo Tell

Atto II

Matilde – Gabriella Tucci
Arnoldo – Mario Filippeschi
Guglielmo Tell – Giuseppe Taddei
Gualtiero Farst – Ivo Vinco

Direttore – Francesco Molinari Pradelli

Bologna, 22/12/1957

9 pensieri su “Guillaume Tell a Bologna

  1. Non ho visto lo spettacolo bolognese e non lo vedrò. Però:
    1) Avevo a suo tempo sentito per radio l’edizione pesarese e la direzione di Mariotti non mi era affatto piaciuta (l’avevo trovato migliore a Torino nel Don Pasquale).
    2) Ho visto l’orrenda messinscena di Vick a Torino e l’ho trovata – per dirla con il Rag. Ugo Fantozzi – “una c…..a pazzesca”. Tamburini mi pare sia stato persin troppo gentile nel commentarla, ma lui era un baritono grand-seigneur… Io a Torino invocavo sonoramente il linciaggio immediato del regista!

  2. Ormai a Pesaro, patria di Rossini si celebrano le sue opere con cantanti adatti alle serate di box, non mi era piaciuta la serata trasmessa dalla radio, che forse ci aveva in parte risparmiato le brutture di Vick. Quando si scherza con il sig. Rossini, mi chiedo
    con quale coraggio poi lo si trasporti altrove, a fare altre brutte figure ???
    Va bene che all’opera tutto sembra ormai lecito, ma almeno avessero gusto, si potrebbe anche chiudere un occhio, Ma se poi si vuole non fare odiare Rossini, ci si dovrebbe limitare a cercare voci adatte e non registi da baraccone.

  3. Mi fa piacere che venga ricordato quell’ allestimento del 1957 con Filippeschi perchè, pur riconoscendo l’ approccio sbagliato dell’ epoca al Tell, in molti altri siti il, per me grande, tenore fiorentino viene sistematicamente criticato qualunque cosa abbia cantato ma tali esperti dimenticano che questa ugola d’ acciaio era in grado di alternare il Tell alle forze del destino …

  4. E invece Aureliano molti non gli risparmiano critiche nei vari siti web dove si confrontano i melomani. Io non nego che Filippeschi a volte usasse l’ accetta dove andava usato il cesello, ma attaccarlo perchè cantava il Tell non integrale che si usava all’ epoca fa veramente ridere

  5. Ieri sera ero al Comunale. E’ tutto vero quello che scrive Tamburini e che ho letto sopra: in fondo sono riflessioni che ho fatto anch’io (quasi su tutti i punti).
    Però voglio essere sincero, e ripeto quello ho detto a chi mi ha chiesto un parere, cioè che “nonostante qualche nonostante” (e in fondo neanche da poco) io la serata me la sono goduta, e anche abbastanza, al di là di quella porcata di allestimento (davvero fastidioso), al di là delle mende vocali, al di là di tutto insomma… Sarà che mi sto un po’ rincoglionendo :D, o che avevo un bisogno quasi fisico di uscire da teatro, una volta tanto, quasi soddisfatto!
    Cari saluti 😉

Lascia un commento