(Ancora) tante scuse: Simon Boccanegra a Bologna.

Esauriti gli spettacoli c.d. di cartello, ovvero le nuove produzioni, o meglio quelle da gabellare per nuove, il teatro felsineo propone una ripresa dell’allestimento del Simon Boccanegra che vide la luce nella sala del Bibiena una decina abbondante di anni fa. Quella produzione fu, a suo tempo, oggetto di una vasta eco mediatica per il debutto nel titolo di Michele Mariotti, direttore musicale in pectore allora e oggi effettivo del teatro, che non ha però, almeno stando a quanto si è potuto sentire via radio da Torino il mese scorso, compiuto nel frattempo significativi progressi nell’arte di dirigere e concertare il cigno di Busseto. Oggi sul podio bolognese è Andriy Yurkevych, che abbiamo, negli anni, appreso a conoscere quale direttore di fiducia di Edita Gruberova. Accompagnare una primadonna a fine corsa presuppone alcune delle caratteristiche in capo al buon concertatore d’opera, ma il presupposto si realizza molto raramente e comunque non esaurisce i compiti che spettano a una bacchetta alle prese con il Simone o più in generale con i titoli della maturità verdiana. Oltre alle esigenze dei solisti è presente o meglio, urge la necessità di coordinare buca, palco e spesso (finali d’atto) retropalco, non limitandosi a “tenere” le fila del discorso musicale ma contribuendo a dargli forma, restituendo le atmosfere ora elegiache, ora corrusche, del dramma. E qui sistematicamente il maestro Yurkevych si limita a battere la solfa, spesso moderando i clangori in chiusa ai quadri e cavando dall’orchestra un suono di dignitosa qualità, ma il “passo” verdiano è ben altro, come esemplifica il solito Panizza. Quanto alla compagnia di canto, spiace dover replicare osservazioni in parte già proposte, ma finché non muteranno i criteri che governano (pour ainsi dire) la scelta dei cast, appare improbabile che possano formularsi in maniera significativamente diversa le osservazioni che quei cast suscitano. Osservazioni che potrebbero assumere forma (non puramente retorica) di interrogazione. Il primo e principale quesito riguarda le ragioni che hanno spinto ad allestire di nuovo quest’opera (oltre alla volontà, di per sé evidente, di sfruttare un allestimento ormai da tempo “congelato” in magazzino), un titolo che richiede, per poter funzionare in maniera ottimale, un protagonista e un antagonista di pari rilievo. Il primo è Dario Solari, che avrebbe avuto, in natura, voce e predisposizione per le opere di Bellini e Donizetti, e qui suona, in maniera anche più evidente rispetto a un ormai remoto Macbeth bolognese, di limitata ampiezza e spesso stonato in zona medio-alta. Gli fa eco il Fiesco di Michele Pertusi, l’elemento più solido del cast ma privo della cavata che necessariamente compete all’altero patrizio genovese, destinato a eclissarsi negli ensemble (finale primo e terzo, in cui la voce del basso avrebbe parte rilevante, a tratti persino preponderante con frasi come “sta la città superba nel pugno d’un corsar”). Rose e fiori, comunque, rispetto alla prestazione degli amorosi: se Stefan Pop replica l’exploit della Lucia dell’anno scorso, limitandosi a un canto appiattito sul mezzoforte, tendenzialmente brado e segnato dall’evidente difficoltà di smorzare i suoni (caratteristica che Adorno DEVE sfoggiare nei momenti in cui proclama la propria tenerezza per Amelia e al finale secondo, reduce dal mancato omicidio del suocero in potenza), assolutamente costernante è la prova di Yolanda Auyanet, che dopo aver lasciato belle (si fa per dire) prove in Mozart e Rossini approda ai grandi ruoli verdiani con voce senescente, priva di punta, sovente anche stonata (la sortita, passata sotto esterrefatto silenzio, è il segnale più eloquente dell’impatto di una simile prova su un pubblico pur in ogni senso benevolo, come quello locale). Analogo percorso quello del Paolo di Simone Alberghini, belcantista in dismissione che non ha l’eloquenza luciferina e la rabbiosa impotenza del cortigiano doppiogiochista, ma si limita a compitare (con uno strumento ormai di scarso spessore) la parte. Se a tutto questo aggiungiamo uno spettacolo di per sé polveroso, che spesso ricorre a soluzioni sceniche parrocchiali (la scalinata del Palazzo degli Abati, in odor di abuso edilizio, e gli appartamenti del Doge, in cui non compare non dico un letto o un divano, ma una comoda), si stenta davvero a comprendere per quale motivo il teatro abbia sentito l’urgenza di riproporre quest’opera.

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Un pensiero su “(Ancora) tante scuse: Simon Boccanegra a Bologna.

  1. Il problema non é solo la scelta errata delle voci ma anche la qualità media dei cantanti, nel senso che é sempre più difficile trovare professionisti che hanno gli strumenti minimi per affrontare determinati tipi di scrittura quindi sicuramente non vorrei essere nei panni di chi allestisce questi spettacoli. Se poi ad una difficoltà oggettiva si aggiunge anche l’ignoranza di chi allestisce il disastro é garantito.. c’è bisogno quindi di talent scout con gli attributi, ma quei soliti che conosciamo bene sappiamo benissimo che uso ne fanno. Riguardo allo spettacolo é un teatro provinciale fino al midollo, che tenta di farsi la voce grossa con qualche produzione tipo puritani con florez e norma con devia ma alla fine i risultati anche di pubblico pagante si vedono. Saluti.

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