La settimana di Attila: quarta puntata

Giuseppe Patanè, figlio di Franco Patanè, era direttore talvolta discontinuo e non sempre capace di fare centro. Eppure talune direzioni verdiane del maestro sono punti di riferimento nella tradizione italiana con grande rispetto del canto non già per accondiscendere ai cantanti, ma per esaltarne e stimolarne le qualità interpretative e cogliere la struttura dei titoli che proponeva. Ancora oggi viene e con ragione ritenuta esemplare la sua direzione di Forza del destino della stagione del bicentenario scaligero dove seppe sostenere ed esaltare una già provata Caballé e cantanti non più freschi, benché famosi e colonne del teatro milanese.
Chi ascolta i due Attila che restano del maestro, popolati di cast considerevoli può trovare in ogni momento dell’opera realizzato l’assunto. Che sia quello di Edimburgo con i complessi del teatro Massimo di Palermo oppure quello milanese di tre anni successivo abbiamo orchestre che suonano bene e precise (ovvio per quella scaligera, un po’ meno per la palermitana allora però abituata a seri e solidi professionisti), i momenti di rapimento ed estasi vuoi sia la cavatina all’atto primo di Odabella che il sogno di Attila sono estatici, ma mai sdilinquiti e privi di quello slancio che, con riferimento ad un titolo del 1846, deve segnare la differenza fra Verdi e Donizetti, deve essere palesato all’ascoltatore. E siccome in entrambe le rappresentazione Patanè dispone di voci importanti e sontuose per ogni personaggio abbiamo tensione e slancio mai inutili clangori. Anche qui si possono fare molti esempi a partire dal duetto Attila/Ezio o l’incontro notturno fra i due amanti dove Odabella si palesa anche con il promesso per la virago che Verdi e Solera pensarono sino al finale secondo dell’interrotto banchetto di morte. Forse il momento più pertinente in entrambe le realizzazioni è il finale primo con l’arrivo di Papa Leone dove Patanè rende in maniera esemplare l’evento storico riportato sulla scena. Era, mi sia consentito dirlo, il grand-opéra in formato parmigiano quindi spontaneo, popolare, pittoresco ed iconografico.
Patanè nelle due esecuzioni dispone degli ultimi cantanti di ampiezza e grandeur verdiana. Il che non significa siano perfetti. Anzi. Sta di fatto, però che Ghiaurov già incline all’emissione “slavona” nello stomaco e quindi avaro di colori è esemplare perché il direttore lo induce a moderare il volume e il parlato a favore del canto e del legato. Questa regia vocale è efficiente ed il cantante bulgaro è ben differente dallo scomposto Banco che offrirà nei mesi successivi o il parlante Filippo II della stagione del bicentenario. AL medesimo risultato Patanè addiviene con Ruggero Raimondi, che soprattutto alle prese con Verdi il vizio di imitare Ghiaurov l’ha sempre esibito pur con una voce più chiara (che si addice al personaggio) ed una ricerca di espressione in natura superiore al collega bulgaro.
Interessante anche il confronto fra i due Ezio. Entrambi Piero Cappuccilli alla Scala e Renato Bruson nella trasferta del Massimo non possono competere con i baritoni delle generazioni precedenti soprattutto nel ruolo di Ezio di scrittura acutissima e di slancio quarantottesco alternato al subdolo esercizio del sottogoverno. Ora Bruson è più vario nell’accento, ma siccome non ha mai saputo eseguire correttamente il passaggio superiore nelle frasi scomode di Ezio tipo “resti l’Italia a me” o nella cabaletta del secondo atto naufraga o quanto meno annaspa. Quanto a Cappuccilli che se non avesse avuto l’ansia di scurire e bitumare la voce sarebbe stato un baritono chiaro e tenoreggiante sfoggia slancio verdiano e gusto verista. Gusto verista perché è l’emissione medesima che toglie al canto ed alla voce, in natura dotatissima, espressività anche in un caso come questo in cui Cappuccilli è contenuto e si sforza di interpretare. E poi c’è la trombonata della salita al si bem acuto in chiusa dalla cabaletta. Sarà, appunto una trombonata, ma ha un sapore da quarantotto da “aizzaloggione” che in Attila sta benissimo.
Aggiungo con riferimento alle quattro voci gravi che ad onta di limiti di gusto e di mende tecniche, che non si possono non sentire tutti restituiscono un canto ed una conseguente costruzione di personaggi solenni e magniloquenti, statuari di una statuaria un po’ popolare oggi sconosciuta.
A parte le protagoniste femminili. Efficiente, pugnante insurrezionale ad onta di qualche sforzo e durezza in alto Luisa Maragliano, capace di piegare la voce per l’aria del primo atto e di svettare nel finale secondo e nel terzetto. Ancor più interessante la Orlandi Malaspina, che ebbe e non già per motivi vocali ostacoli ed ostracismo nella carriera per elementi differenti dall’arte. Abbiamo avuto occasione, commemorandola in morte, di parlare del sontuoso mezzo vocale di autentico soprano spinto. In questo Attila, che fu l’ultimo impegno alla Scala, ormai pronta ad incoronare ed applaudire regine ed imperatrici con voce da sartina e fioraia, il soprano bolognese sfoggia la voce sontuosa ampia, l’accento nobile ed ispirato che sono caratteristiche irrinunciabili per il soprano drammatico d’agilità e di qualche occasionale durezza in alto non se ne accorge proprio nessuno anche per merito del concertatore. A me sembra ieri, ma è quasi passato mezzo secolo ed oggi chiamiamo soprano drammatico voci acide, indurite, fibrose, ingolate e precocemente accorciate.

Giuseppe Verdi
Attila

Attila – Ruggero Raimondi
Odabella – Luisa Maragliano
Ezio – Renato Bruson
Foresto – Bruno Prevedi
Uldino – Umberto Scala
Leone – Franco Pugliese

Orchestra e Coro del Teatro Massimo di Palermo
Giuseppe Patané

Edinburgh Festival, King’s Theatre, 28 Agosto 1972.

Prologo

Atto I

Atto II

Atto III

Attila

Attila – Nicolai Ghiaurov
Odabella – Rita Orlandi Malaspina
Ezio – Piero Cappuccilli
Foresto – Veriano Luchetti
Uldino – Piero De Palma
Leone – Luigi Roni

Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano
Giuseppe Patané

Milano, Teatro alla Scala, 15 Maggio 1975.

Prologo

Atto I

Atto II

Atto III

5 pensieri su “La settimana di Attila: quarta puntata

  1. Che bella voce la malaspina é stata ingiustamente messa da parte ma che voce. Patané ho sempre avuto i medesimi sentimenti ma adesso sono curioso di sentire il nostro che cosa ha preparato. L’orchestra del massimo é irriconoscibile se penso ai suoni acidi e stonati che ho sentito con Ferro un vero peccato. Tornando alle voci gravi i questa moda di scurire la voce da caratterista da quattro soldi non l’ho mai capita o meglio non riesco a capire da dove abbia avuto inizio e da chi soprattutto, perché un basso se tale é realmente non dovrebbe aver bisogno di gravare così si un mezzo che senza sforzo rende l’idea di quello che un basso é realmente. Toglie fiato e naturalezza e ingoffa il tutto. Misteri.

    • tutto si poteva dire di ghiaurov, ma non che non fosse una straordinaria voce di basso. Quanto a Raimondi è stato uno dei primi a patire l’ossessione della voce scura per la corda di basso. Eppure le registrazioni del primo trentennio del 900 testimoniano cantanti che cantano in tessiture profondissime con colore assolutamente chiaro e baritonale. Penso a Pol Plancon, ma per certi versi anche a Marcel Journet.

      • No io ovviamente facevo una riflessione generica non era una critica a ghiaurov, e Plancon é un esempio di straordinaria bellezza vocale e senza troppi sforzi da l’idea cosa deve essere il Canto con la c maiuscola.

        • siamo onesti l’assur di plancon o il marcel di Ugonotti sarebbero esperienze di ascolto grandi..
          Per altro oggi quando senti i cd bassi in realtà bassini, bassetti e bassotti hai sempre il dubbio che sarebbero tenori o baritoni brillanti se impostati correttamente.

          • Esattamente sembra proprio che spingano il mocio fino in fondo ecco perché risultano grotteschi e comunque é anche vero che le voci Di autentico basso sono molto rare la maggior parte delle volte sono dei baritono che giocano a fare il basso se non addirittura tenore come detto

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