Demetrio e Polibio al Rof, ovvero: Lisinga, regina e guerriera.

Lunedì sera al Rof Demetrio e Polibio, vero e primo appuntamento che ha ricordato la natura della manifestazione pesarese. Nessuna perplessità da parte del pubblico relativamente ad ogni aspetto dell’allestimento, anzi, il piacere di assistere ad uno spettacolo. Piacere ed interesse smarrito dopo la Semiramide. Preciso che non è onesto addurre come motivo del felice esito della serata la natura di esperienza giovanile del titolo proposto. Semiramide, opera composta alla fine dell’esperienza italiana, propone all’interprete, al pari del Demetrio, peculiari problemi in ragione del momento compositivo. Basti pensare alla necessità di individuare la vasta eredità del morente ancien régime e le anticipazioni del Rossini che, di lì a qualche anno, diventerà l’operista più famoso del suo tempo. Demetrio e Polibio deve essere proposto con la chiara idea che sia il lavoro di un adolescente, che conosce benissimo la produzione coeva e ne fa uso, ma che a brevissimo esplorerà strade della composizione, che lo renderanno il nume tutelare del cinquantennio successivo. Penso, prima e sopra tutto, ai pezzi concertati, a partire dal quartetto “Donami omai Siveno”, che annuncia, in formato ridotto ma completo (a partire dalla struttura tripartita), i grandi ensemble delle opere successive, e alla scelta di concatenare tra loro i numeri chiusi, tanto nel finale primo (che comprende un assolo del soprano, una scena dello stesso con il tenore e un quartetto con il coro) quanto alla sortita della principessa dei Parti (ruolo principale dell’opera, benché non eponimo), chiamata, dopo un recitativo obbligato e una cavatina, a esibirsi in un duettino con il musico (“Questo cor ti giura amore”, cantilena destinata a essere riutilizzata in molti titoli del catalogo rossiniano) e poi in una grande aria (nominalmente un terzetto, con gli altri personaggi chiamati però a fare, in sostanza, i pertichini) che rimanda, nel trattamento virtuosistico della voce come nell’impiego di strumenti obbligati, a tante pagine della produzione tardo barocca e classica. È questa compresenza di nuovo e di antico, assieme all’impronta di un talento prossimo a divenire autentico genio, a rendere il Demetrio qualcosa di più di una semplice curiosità per studiosi e compilatori. Alla testa della volonterosa Filarmonica Gioachino Rossini, Paolo Arrivabeni è riuscito, se non altro, a contenere i meccanici clangori di altri, ben più osannati maestri del recente passato e a imprimere al dramma un passo teatrale convincente, se non travolgente. Merito, anche, della regia di Davide Livermore, già vista a Pesaro e Napoli (ripresa da Alessandra Premoli), che ha il pregio di proporre un’idea magari poco originale, ma garbata e carica di suggestione: i personaggi sono i fantasmi della famiglia Mombelli, committenti dell’operina, che in un teatro moderno continuano a operare le proprie magie, invisibili agli umani, che tuttavia ne subiscono, a volte, gli effetti. Lo spettacolo, gradevole alla vista, vivace ma esente dal ricorso alla caricatura, caratterizzato da una poesia garbata (il gioco delle candele e dei simulati specchi), appare censurabile solo quando (ad esempio nel finale del primo atto e nel summenzionato quartetto) costringe i solisti a movimenti che limitano il contatto visivo con il direttore d’orchestra, incidendo negativamente sulla coesione musicale dell’esecuzione. Delle quattro parti il solo basso, Riccardo Fassi, risulta inferiore alle richieste, tutt’altro che onerose, della partitura: la voce manca di sonorità e l’intonazione non è immacolata. Tutto sommato accettabile la prova di Juan Francisco Gatell in un ruolo pensato per un cantante (il “capofamiglia” Domenico Mombelli) anziano, è vero, ma ancora in possesso di una certa ampiezza al centro e soprattutto della caratteristica (sottolineata dalla critica, che in questo vedeva uno dei capisaldi della “scuola antica” settecentesca) di scandire il recitativo: il tenore argentino accusa qualche incertezza nella zona dei primi acuti, ma è abbastanza sicuro nel canto fiorito e ha (salvo che all’inizio del confronto con Polibio) sufficiente cavata per affrontare con pertinenza il ruolo in un teatro di contenute dimensioni come quello pesarese. Piacevole la prova di Cecilia Molinari, che in una parte eminentemente centrale – e ben lontana dai fasti che Rossini riserverà ai “suoi” contralti – esibisce una voce di limitato volume, priva però di quella fastidiosa ricerca del “colore scuro” (leggasi: suono greve e intubato) che oggi sembra, quasi senza eccezioni, la cifra del cantare Rossini nei ruoli en travesti (e non solo). Quanto alla Lisinga, già ascoltata a Napoli, di Jessica Pratt, va osservato come il secondo approccio al ruolo giovi alla cantante, che propone variazioni più misurate, ma non meno spettacolari, limitando l’inserimento di escursioni all’acuto (in una parte che è peraltro già di tessitura astrale) in favore dell’aggiunta di trilli, mordenti, gruppetti e soprattutto dell’esibizione di un suono sempre “avanti”, morbido e sognante negli andanti (il citato duettino con il mezzosoprano, l’assolo al finale primo), carico di slancio amoroso alla prima aria e, alla seconda, di autentico furore guerriero, tanto notevole da far ritenere che convengano, alla cantante australiana, spada, cimiero e clipeo ben più di ogni arnese femminile o presunto tale. Del resto la figlia di Polibio è, nel dramma dell’apprendista compositore, il vero eroe o, comunque, il personaggio cui spetta l’iniziativa, magari cruenta e sproporzionata rispetto all’oggetto e all’esito dell’azione, e questo naturalmente si riflette sulla scrittura vocale, incomparabilmente più ricca di spunti, varia e ardua rispetto alle altre tre parti. Non a caso, delle sorelle Mombelli, Ester fu quella che fece carriera, sia come vocalista che come interprete, essendo una famosa Cenerentola e Donna del lago. Oggi come oggi, in queste parti da amazzone Miss Pratt (a onta di qualche suono non perfetto nella parte conclusiva della prima aria) non patisce confronti. A fronte della reazione di un pubblico giustamente soddisfatto e generosamente plaudente, che ha acclamato gli esecutori più volte al termine dei singoli numeri, risulta incomprensibile la scelta di non concedere alla fine dello spettacolo uno spazio, anche minimo, per le uscite singole, ovvero quel momento che, per consolidata tradizione, permette ai solisti di raccogliere sino in fondo il frutto delle proprie fatiche. E non si può neppure addurre come scusa la necessità di “andare a casa”, ché l’intero Demetrio dura, intervallo compreso, poco più del solo primo atto di Semiramide, autentica maratona al termine della quale c’era stato, comunque, spazio per le singole, comprimari compresi. Ai lettori trarre le inevitabili, quanto dolorose conclusioni.

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