Semiramide, da Babilonia a Bibbiano. Una tragedia trash inaugura il ROF.

Ieri sera si è inaugurata la quarantesima edizione del festival rossiniano di Pesaro. Titolo prescelto: Semiramide. Abbiamo il fondato motivo di ritenere che lo scopo, non dichiarato ma tenacemente perseguito, del ROF sia diventato quello di distruggere la drammaturgia del dedicatario del festival e la sua poetica. Sotto il profilo vocale da più decenni dobbiamo registrare questa tendenza, ma da almeno due lustri questo animus delendi si è esteso alla drammaturgia. Poi il pubblico applaude, ora per ignoranza ora per adesione alla pesaresità. Ma se la pesaresità è un male fisiologico che grava sul festival, l’ignoranza invece cresce nel tempo e siamo ormai dinnanzi ad un condiviso fraintendimento della tragedia rossiniana. Per essere chiari, Semiramide, ultimo titolo della produzione italiana del pesarese, si inquadra nel paradigma della tragedia con una serie di situazioni (rapimenti, agnizioni, apparizioni di ombre dall’Ade, congiure, scioglimento) che consentono agli esecutori l’esibizione dei loro mezzi interpretativi e canori. Niente di più e niente di meno. A questa formula drammatica si addicono allestimenti se non oleografici che amplifichino e dettaglino per il pubblico ciò che accade in scena. Inserire notazioni realistiche che possono essere (non in quest’ordine) Arsace che bussa alla porta del santuario come una Cappuccetto Rosso qualsiasi, disegnare il cuoricino sulla lavagna come una scolaretta alle prese con il primo amore, strizzare le palle all’ex dopo una sveltina sul divano del salotto comprato a rate al Mercatone Uno, riempire la scena di scarabocchi infantili che trasferiscono Babilonia a Bibbiano ed alla fine far troneggiare in luogo degli idoli pagani un enorme Coccolino azzurro, non significa dare una nuova chiave di lettura di Semiramide, ma essere dei pagliacci privi di idee, ignoranti, e che dilapidano le ahimè scarse risorse pubbliche riservate alla cultura. D’altronde un produzione senza capo né coda come questa Semiramide pesarese giustificherebbe il taglio di qualsiasi pubblica sovvenzione. Il pubblico alla fine ha fischiato. Ma ha fischiato poco e male. Male perché andava subissata di fischi l’intera compagnia di canto assemblata dal festival, con la sola eccezione di quel che avanza della voce di Antonino Siragusa. Proporre Salome Jicia come Semiramide è impostura ed idiozia nel contempo. Essere contrari alla Semiramide liberty di Joan Sutherland non significa eseguire la parte in maniera pressoché letterale con urla lancinanti a partire dal sol acuto, mancanza di splendore virtuosistico e di magniloquenza d’accento. Più che la regina guerriera, un’anonima impiegatuccia. In questa presunta Semiramide tragica, il momento peggiore è stata la scena del giuramento, in cui sono mancati ampiezza, scansione, sonorità e quindi regale solennità. Per completezza dobbiamo segnalare i contorcimenti della protagonista nei passi più squisitamente acrobatici, indizio evidente di una non corretta impostazione tecnica e di un controllo del del fiato dilettantesco. La scuola di canto ottocentesca, la sola idonea a formare i cantanti “da Semiramide” considerava l’assoluta immobilità del busto prova del corretto controllo del fiato. Quanto al sodale di scelleratezze della nostra reginetta, al secolo Nahuel Di Pierro, costui, privo di legato ed ampiezza, ha parlato tutta la sera, sia nei recitativi che nei cantabili, farfugliando le agilità e stonando di frequente. Mancava qualunque idea del personaggio, protervo e nobile allo stesso tempo. Grossa delusione è poi venuta dal guerriero in tacchi a spillo Arsace di Varduhi Abrahamyan: la cantante sarebbe un buon mezzosoprano acuto, dotata di voce morbida ed anche sonora, ma l’imitazione dei suoni bassi, gonfi e contraffatti di molti pseudo contralti rossiniani ha indurito ed accorciato la voce ed appesantito il canto di agilità. La cantante stenta inoltre ad addolcire e ad ammorbidire i suoni, come dimostrato nell’andantino “d’un tenero amore” e nella frase “ella è mia madre”, dove è incapace di cantare piano o pianissimo come spartito e situazione scenica imporrebbero. Da tutti i cantanti abbiamo sentito scarse e scolastiche varianti e la domanda legittima è se questa sia una scelta o una irrinunciabile necessità, quando si scritturano interpreti inadeguati alla difficoltà vocali previste dal compositore. E poi in tanta pochezza la direzione di Michele Mariotti. Parenti, amici e conoscenti pesaresi hanno manifestato con partecipe entusiasmo la propria approvazione per “Michi” (testimonianza live di chi scrive). Michi però ha perso più volte coro, orchestra e banda interna, per esempio nel finale primo. In secondo e più importante luogo la mascotte del festival dirige Semiramide con l’ampiezza, le sonorità, i tempi, la varietà di colori che al più potrebbero essere consoni ad un intermezzo del Settecento napoletano, esempio preclaro il coro “Suoni festevoli, mistici cori”. Banditi la cupa tragedia, la sacralità l’irrazionale delle apparizioni ctonie. Per non parlare dell’assenza di macchine sceniche che devono produrre il rumore del tuono, sostituite dal battere delle mani per terra degli sfattoni, ministri rasta del tempio di Belo, che non evocano mondi preclassici, ma semplicemente l’adagio milanese “a batt i pagn cumpar la stria”. Inutile pretendere da questa rinomata bacchetta creazioni di atmosfere, e Semiramide è opera di atmosfere, suggerimenti di accenti agli esecutori e naturalmente predisposizione di accomodi e varianti che, nel pieno gusto rossiniano, possano agevolare i cantanti. Ma qui i cantanti ci sono?

Recensione a otto mani di Pauline Viardot, Domenico Donzelli, Adolphe Nourrit e Antonio Tamburini

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27 pensieri su “Semiramide, da Babilonia a Bibbiano. Una tragedia trash inaugura il ROF.

  1. Caro Donzelli et al., secondo me la cosa è semplice: trattasi di “Nuova coproduzione con Opéra Royal de Wallonie-Liege”. Ora a Liegi o posti consimili (degnissimi, peraltro) ci si deve presentare “Unconventional”, altrimenti non va, e lo sapete benissimo. E quindi, soldi soldi soldi.
    Quando la daranno da quelle parti vorrei andare a vedere di che si tratta: anche perché magari l’esecuzione sarà decente, Io l’ho subita per radio, con i soliti equilibristici commenti degli amici di Radio 3, e già dall’incipit, con un bello ed evidente errore dell’ottavino (targato RAI, ma può capitare) il mio umore se ne è sceso. Il resto l’avete commentato meglio di quanto potrei fare io.
    Non so quanto io posso campare ancora, ma penso a chi dovrà tenersi il rampollo glam della dynasty pesarese come “‘erede” della gloriosa serie dei Direttori nostrani.

  2. Grazie grazie e ancora grazie per aver postato Fricsay direttore da me amatissimo. Per inciso : la sua direzione dello Stabat rossinniano, nonostante l ‘uso del latino barbaramente germanizzato, resta la più bella dell’intera discografia!

  3. Niente paura: tout se tient.
    Cosa aspettarsi da una sagra di provincia detta ROF in una nazione che si ritrova nel bel mezzo di una recita delle Baccanti di Euripide con Bombolo e Alvaro Vitali nei ruoli di Dioniso e Penteo?

    Viva il trash, dunque: Aspettiamo con ansia divertita il debutto – caldeggiato da Nastasi – della Signora Purchia nel ruolo di Norma al San Carlo di Napoli.

  4. Una sagra di provincia, come no. Sarà per questo che il 70% del pubblico del ROF è internazionale : quando si dice l’amore dei foresti per le sagre paesane. Tra l’altro il ROF è una manifestazione con ricadute importanti sull’economia del territorio, diciamo di proporzioni insolite per una sagra di provincia. Graham Vick, che certamente non ha dato il meglio di se’ in Semiramide, è internazionalmente considerato tra i massimi registi d’opera oggi in attività, probabilmente il numero uno. Davvero bravi gli organizzatori della provinciale sagra pesarese a convincerlo a prendere parte a un evento tanto rustico e marginale. Magari l’anno prossimo, imboccata la pericolosa strada dello strapaese, vedremo Vick arrostire salamellle a qualche festa dell’Unita’. E comunque le Immarcescibili e spettegolanti zitelle ( qualcuna anche en travesti, in omaggio ad antiche consuetudini belcantistiche ) nella augusta e nostalgica polvere dei loro tinelli , non cesseranno di moraleggiare sul depravato spirito dei tempi. E a tessere – sollevando qualche tazza e magari anche qualche mignolo – l’immancabile elogio delle stagioni di una volta, sciorinando con ostinazione quelle che un tempo si chiamavano arie di baule. I numeri buoni per tutte le occasioni, a prescindere.

    • Anche l’esaltazione acritica e umorale delle peggiori pagliacciate gratuite può divenire un’aria di baule. Giova poi ricordare che, quando si parla di eventi provinciali, non ci si riferisce esclusivamente a ripartizioni geografiche o amministrative, bensì alla sproporzione fra i dichiarati intenti e gli imbarazzanti risultati. A volte le categorie si sovrappongono perfettamente. Esempio preclaro quello fornito dall’autoctono direttore di Semiramide.

    • Caro Gianmario,

      Non sono un esperto di canto, ma credo di avere un bagaglio culturale tale da consentirmi di esprimermi con cognizione di causa sull’allestimento del grande regista, che personalmente considero un abominio di scellerata bruttezza e di banalità sconcertante come già si dice nella recensione.

      Ti prego, quindi, di aiutarmi, argomentando però dettagliatamente, a spiegarmi in che modo si manifesta, nell’allestimento pesarese che tu stesso definisci poco riuscito, la genialità del regista e, soprattutto, qual è il rapporto delle varie sue trovate sceniche con la Semiramide di Rossini e l’estetica del compositore.

      Come ho già detto, poi, non sono un esperto di canto, e lascio ad altri dettagliate disanime relative alla vocalità.

      Io posso solo osservare che, quando ascolto la Semiramide cantata, per esempio, dalla Sutherland o dalla Horne, che pure non si sono esibite nell’Ottocento, lo spirito mi si carica di puro entusiasmo e provo un reale piacere estetico, che si manifesta per esempio con brividi di puro godimento estetico ed intellettuale.

      Se l’altra sera, a Pesaro, hai provato entusiasmo ed emozione, ti invidio sinceramente e ti chiedo, di nuovo, di aiutarmi a capire cosa di preciso ti sia piaciuto e per quale motivo. Ti confesso infatti ingenuamente che io sono uscito dalla Vitrifrigo Arena scandalizzato per l’allestimento, e completamente indifferente per la parte vocale.

      Eppure, nella mia testa, probabilmente limitata, un capolavoro come la Semiramide, se eseguito nella giusta maniera, dovrebbe suscitare nel pubblico veri e propri deliri, da “far venire giù il teatro”, e non i quattro “clap clap” in croce, seguiti dal repentino abbandono del teatro, ai quali ho assistito sconsolato l’11 agosto 2019.

      Grazie per l’attenzione e per la tua cortese risposta, che aspetto con ansia di leggere.

      P. V.

      • Rispondo volentieri dicendo subito che la regia di questa Semiramide mi è piaciuta molto poco, ne’ mi sembra di averne tessuto l’elogio. Ho trovato l’assunto di fondo ( il trauma infantile subito da Ninia ) piuttosto confuso e forzato, tra l’altro non in linea con la cifra stilistica di un’opera che poco ha che fare con realismo e introspezioni quasi espressioniste, quali si trovano nella regia di Vick. Senza contare le numerose cadute di gusto: ad es. il coro di puerpere nel “Bel raggio lusinghier” o il tentativo di stupro messo in atto da Assur nei confronti di Semiramide. Avevo tentato di dire altro: che il ROF è tutt’altro che un festival di provincia ( e Vick potrà aver questa volta sbagliato il colpo, succede: rimane un nome di assoluto valore e prestigio internazionale e nei festival di provincia non va ) e che, data anche l’importante ricaduta economica sul territorio, l’idea, come ho sopra letto, addirittura di chiuderlo mi sembra bizzarra. Aggiungo che ho trovato Mariotti eccellente e che mi risultano poco comprensibili le severissime riserve lette sopra. Infine: se si parla di plausibilità drammaturgiica segnalerei che la Semiramide incisa dalla Sutherland ( ovviamente bravissima anche se algida come sempre ) è un infestata da tagli, cambiamenti e interpolazioni tali da alterare in modo oggi intollerabile l’equilibrio dell’opera ( scelte ovviamente da imputare a Bonynge, che non aveva fiducia nella tenuta dell’opera in versione integra e integrale ).

        • No, qui vi sbagliate. La registrazione Decca di Semiramide fu eseguita con i tagli perché la casa discografica aveva tassativamente ordinato che fosse contenuta inn tre dischi, temendo che altrimenti sarebbe risultata invendibile. Lo so perché me lo disse Bonynge in persona, ad Asolo dopo il concerto suo e della moglie

    • Non scendo nel merito dei contenuti ( mi limito a scrivere che stai difendendo l indifendibile, anche con parecchie forzature). Ma quanto alla forma da te usata, non solo non è divertente, ma è così sgradevole che io non ti avrei nemmeno pubblicato. Da una parte la recensione ad uno spettacolo, cioè ad un evento pubblico, per altro ampiamente sovvenzionato da fondi pubblici e dunque ampiamente soggetto al giudizio di chiunque. Dall altro il tuo intervento pieno di acredine, che suona tanto come un attacco alle persone. Poi, ci stai comunicando che siccome il pubblico è internazionale la sostanza cambia? Ci stai comunicando che i tedeschi o i cinesi conoscono il canto rossiniano meglio di noi? Il rof è ridotto a una fiera di strapaese, magari di paese. Venderebbero i biglietti comunque, anche se a cantare ci fossimo io e te. Devi preoccuparti proprio del fatto che gli italiani snobbino l evento. Ma ormai l esterofilia impera in questo svenduto paese.

      • I due interventi del Sig. Gianmariio – bilioso e personalistico il primo, patetico al limite della tenerezza il secondo – dimostrano chiaramente gli odierni limiti del ROF.
        Come fa notare Tamburini il provincialismo deriva dalla sproporzione tra i dichiarati intenti e gli imbarazzanti risultati: non basta mettersi uno Chanel per diventare la principessa Hercolani.
        Sarebbe simpatico e anche meritorio vedere Vick arrostire salamelle al festival dell’unità : sana manifestazione nazionalpopolare che per anni ha allietato l’estate

  5. I due interventi del Sig. Gianmariio – bilioso e personalistico il primo, patetico al limite della tenerezza il secondo – dimostrano chiaramente gli odierni limiti del ROF.

    Come fa notare Tamburini il provincialismo deriva dalla sproporzione tra i dichiarati intenti e gli imbarazzanti risultati: non basta mettersi uno Chanel per diventare la principessa Hercolani.

    Sarebbe simpatico e anche meritevole vedere Vick arrostire salamelle al festival dell’unità , sana manifestazione nazionalpopolare che per anni ha allietato l’estate di tanti italiani, ma che poco ha a che fare con il teatro di Rossini: trattare quest’ultimo come la prima è l’essenza del provincialismo.

    Vick (e compagnia brutta) la loro salamella l’hanno già arrostita e si chiama Semiramide, in una sede detta ROF; non per beneficenza e con effetti pare deleteri per gli stomachi dei consumatori.

    Come diceva un imbarazzato William Holden a Gloria Swanson, a proposito della di lei sceneggiatura per una Salomè da girare con De Mille: “They’ll love it in Pomona”.

    Propongo un gemellaggio tra Pomona, Calfornia e Pesaro, Marche.

  6. Caro Gianmario,

    Grazie della tua risposta.

    Dici che la Semiramide non ti è piaciuta quasi per niente: non dovrebbe esserci, in un festival che si picca di filologia, qualcuno che si occupi di supervisionare la qualità scenica degli spettacoli, e, soprattutto, la loro pertinenza “filologica“? Mi sembra, infatti, che proporre un Rossini con tutti i crismi sia una delle missioni del festival.

    Dire che è una manifestazione importante perché ha ricadute economiche considerevoli mi sembra assunto che corrisponde più alla massima “pecunia non olet” che non a considerazioni di natura musicale, teatrale e filologica: cosa ne pensi?

    Quanto alla Sutherland: la sua Semiramide è algida o regale e guerriera? E per i tagli di Bonynge: non sono forse dovuti, almeno in parte, al carattere quasi pionieristico di quell’incisione e di quelle recite?

    Mi fa piacere che tu abbia trovato eccellente Mariotti, anche se non hai spiegato quali aspetti della sua lettura del capolavoro rossiniano ti abbiano convinto.

    Nulla, invece, dici riguardo ai cantanti che si sono esibiti a Pesaro l’altra sera.

    Spero che la nostra discussione possa continuare a precisarsi,

    Un caro saluto,

    Pauline Viardot

    • Gentile Pauline,
      dici di non essere “esperto di canto” ma, compulsando gli archivi grisini, leggo tuoi interventi che presuppongono competenza e conoscenza storica. Troppa modestia. Mi sfugge il significato di “pertinenza filologica” della qualità scenica di uno spettacolo. Forse il ritorno agli ottocenteschi fondali dipinti e ai cantanti marmorizzati in pose tribunizie? Tentarono qualcosa del genere in un Simon Boccanegra fiorentino degli anni ottanta con risultati deprimenti. Nessuna grande regia che si ricordi ( dalla Traviata di Visconti al Viaggio a Reims di Ronconi alla stessa Semiramide di Pizzi ) risultò dotata di pertinenza filologica. E oggi qualunque festival di accettabili pretese si affida alla regia di ricerca e sperimentazione ( a meno che non si voglia imbastire riposanti spettacoli per turisti in cerca di relax dopo il pomeriggio trascorso in spiaggia ). Mariotti aveva già diretto Semiramide con grandissimo successo a Monaco di Baviera nel 2017: è evidentemente una partitura che ben padroneggia e comprende. Mi è piaciuta la capacità di sostenere il flusso narrativo con una padronanza, una tensione e un respiro avvincenti, eccellente il fraseggio, evidente e notevolissimo il lavoro di concertazione ( oggi spesso trascurato ): il sostegno al palcoscenico è stato magistrale. Il giovane direttore ha saputo trarre il meglio da un’orchestra buona ma non certo eccelsa. Tra i cantanti ho apprezzato l’Arsace della Abrahamyan, voce di gran rango, tecnica e carisma scenico indiscutibili , l’Idreno di Siragusa e l’Oroe squillante e ieratico di Carlo Cigni. Il pubblico, che ha buato sonoramente il regista, ha accolto con calore gli interpreti (francamente i ‘clap clap’ erano più di quattro: più della media cui sono abituato di questi tempi ). Infine la Sutherland nell’incisione in studio diretta da Bonynge: una volta tanto concordo con Celletti che, pur nell’ammirazione della pura vocalista, dell’interprete e della fraseggiatrice dice: “La Sutherland non ha il fraseggio imperioso d’una regina (…) Nella scena 4 del I atto la sua arringa potrebbe si e no convincere un manipolo di boy-scouts”. Nessuno è perfetto e Semiramide ” è opera tale che nemmeno una Sutherland e una Horne riescono a padroneggiare completamente ” ( sempre Celletti dixit ). Concludo applaudendo la battuta sdrammatizzante di Nicola Biffi che compare qui sotto.

  7. Caro Gianmario,

    Ti ringrazio della tua risposta. Grazie anche dei tuoi apprezzamenti, ma ti assicuro che le mie competenze sono ben poca cosa rispetto a quelle dei benemeriti creatori e detentori di questo sito.

    Per quanto riguarda Mariotti, ti dico che era la prima Semiramide diretta da lui che ascoltavo: francamente ho trovato la sua direzione abbastanza… piatta, ma spero di avere l’opportunità per ricredermi in futuro.

    Deduco dal tuo commento che tu non abbia apprezzato né Semiramide né Assur: in questo sei d’accordo con il Corriere della Grisi.

    Quanto agli allestimenti, intendevo semplicemente dire che i libretti non sono un inutile orpello o un male necessario, e che si dovrebbe a mio avviso rispettare di più quelle che furono le scelte dei compositori, scelte a suo tempo meditate e dettate da precise concezioni estetiche e drammaturgiche, che si ripercuotono ovviamente anche sulla musica del compositore.

    Soprattutto nel caso di un festival il cui scopo è quello di restituire al pubblico il Rossini “autentico”. Impensabile sarebbe un ritorno al 1823, ma si dovrebbe a mio avviso cercare di trasmettere al pubblico lo spirito di un’epoca e di una partitura parlando un linguaggio più attuale ma senza facilonerie baraccone.

    Qual è infatti il rapporto tra l’astrattezza del belcanto rossiniano e la strizzata di palle che Semiramide infligge ad Assur dopo che questi l’ha sbattuta sul divano? In che modo la tragedia di Semiramide è servita dal ridicolo Coccolino azzurro, dal grottesco coro di puerpere con bebè di plastica o dai giganteschi disegni infantili che l’altro giorno ho visto, pressoché identici, sulle pattumiere di un ristorante Mac Donald’s?

    Non sono un nostalgico dei fondali dipinti o del coturno tragico, che peraltro non ho mai visto in scena (ho 37 anni), né sono aprioristicamente contrario all’attulizzazione di un soggetto, purché, però, questo sia coerente e pertinente. Lo spettacolo pesarese era un’accozzaglia di scelte arbitrarie, assolutamente fuori stile e incoerenti tra di loro. Un esempio: tutto era moderno se non modernissimo e poi Mitrane entra in scena per consegnare alla regina una bella pergamena che nemmeno nel Britannico di Racine…

    Altre due considerazioni: con la morte di Zeffirelli e quella di Tosi la stampa ha molto parlato della bellezza degli spettacoli operistici di tradizione tipicamente italiana: anziché stravolgere tutto come fanno questi signori, perché non recuperare questa bella tradizione, evidentemente attualizzandola e rendendola più consona ai gusti di oggi? La gente trova davvero belli questi spettacoli? O una Semiramide di questo tipo induce davvero lo spettatore a riflettere sulla fluidità di genere o sui traumi infantili? Perché mettere in Rossini idee che semplicemente non ci sono in Rossini?

    E ancora: la tecnologia oggi è molto avanzata. Se proprio si vuole stupire il pubblico, perché non la si mette al servizio della bellezza anche a teatro, con effetti 3D o altro? Ricreando, che so, i giardini di Babilonia o altro.

    Negli ultimi anni, parlando di ROF, che la regia sia firmata da Vick, Michiletto o Barberio Corsetti, gli spettacoli sono tutti uguali, a partire dall’ambientazione troppo astratta, per continuare con gli anonimi costumi (eppure il costume contribuisce a creare il personaggio) e per finire con lo stravolgimento della trama. Registi diversi, una concezione unica della bruttezza.

  8. Si’, mi sento abbastanza vicino a quanto scritto da PaulineViardot. Ma Vick fece, qualche anno fa, un Guglielmo Tell per Pesaro e Torino ? O mi confondo ? Ecco, quello era comunque molto brutto: lo spettacolo non dovrebbe mai essere esteticamente brutto. Attualizzare puo’ anche essere un’operazione interessante ma occorre saperlo fare, con criterio. Qualche anno fa a Salisburgo, non mi ricordo di chi era la regia, i “barbari Etiopi” furono accomunati agli odierni migranti. Ma che c’azzecca ? Son nemici e prodi sono, la vendetta hanno nel cor, fatti audaci dal perdono correranno all’armi ancor, e intanto vediamo, in prima fila, una bambina di 9-10 anni: e’ lei la prode che, fatta audace dal perdono, correra’ di nuovo all’armi ? E’ con lei che se la dovra’ nuovamente vedere Radames ? Ecco, lui sognava di guidare un esercito di prodi per andare a picchiare una bambina, questo e’ quello che ci trasmette la regia, ma e’ falso e e non aderisce al tema perche’ e’ il risultato della pretesa di voler attualizzare a tutti i costi: si va a inficiare il senso dell’opera, solo per voler assurgere a protagonista a tutti i costi, allora, a questo punto, preferisco un fondale dipinto e i cantanti piantati a gambe larghe sul palcoscenico: non vedo la necessita’ di dover sperimentare a tutti i costi: se il regista ha qualcosa da dire, lo dica, ma che sia pertinente e non si inventi le cose per voler diventare per forza protagonista; che faccia il regista, assecondando e rendendo il piu’ possibile veritiero quello che c’e’, non inventandosi quello che non c’e’: dobbiamo per forza cercare di capire quello che ha in testa ma perche’ ? Per regalargli un po di celebrita’ ? Allora, se vuole trasportare la vicenda di Radames fra un migliaio di anni, magari guidando un esercito di astronavi contro Alfa del Centauro, che lo faccia, ma quelli di Alfa del Centauro devono essere un manipolo di guerrieri, non dei migranti che attraversano gli spazi siderali per cercare rifugio nel Sistema Solare. Chiaro che poi ciascuno e’ libero di apprezzare l’idea di Salisburgo, io no.

    • Il Gugliemo Tell messo in scena da Vick anni fa e da me visto a Torino non era molto brutto. Definirlo molto brutto è troppo poco. Era semplicemente orrendo. Vomitevole, dotato di elevatissimi poteri lassativi. Da consigliarne, pertanto, la visione ai soggetti stitici cronici.
      Ma, dato che al peggio non c’è mai limite, aspettate a vedere cosa farà Herr Tobias Kratzer nella sua regia dell’opera a Lione fra un mese e mezzo. Si annunciano cose da far rimpiangere l’orrida messinscena di Vick! Tanto per capirci Herr Kratzer è colui che quest’estate, sulla sacra collina di Bayreuth, ha messo in scena il Tannhauser vestendo l’eroe eponimo da pagliaccio….

      • Don Carlo…siamo sulla stessa lunghezza d’onda..il Tell di Pesaro/Torino era orrendo…ricordo ancora (tra le tante oscenità) il battere degli stivali dei soldati nelle danze nel terzo atto : puro fastidio fisico. Per quanto riguarda la bruttezza di un Tell o di Semiramide o dell’infausto Tannhäuser Bayreuth 2019, la colpa non é del regista (poverino…fa quello che sa fare!!!!) ma di chi lo chiama! Sono i sovrintendenti, i reggenti delle Istituzioni che dovrebbero essere fischiati e presi a calci in c…ulo!!! Ho letto da qualche parte di come sarà il primo approccio di Michieletto con un opera barocca (Alcina Salisburgo)…….primo approccio….opera barocca……ho dato un occhiata al video che gira già su YouTube……ma fatemi il piacere. Il pubblico ormai che si presta a farsi defecare in bocca e dire che é buonissima, una lettura irriverente, cosi geniale, cosi….non mi vengono più le parole…solo tanta tanta tanta tristezza

  9. Intanto che ci siamo, nel 1992 a Pesaro si era potuta vedere, per le cure di De Ana, una Semiramide che rendeva davvero l’idea di cosa la Semiramide dovesse essere. In tanti anni di frequentazioni liriche, poche volte ho visto uno spettacolo di tale livello, di tale fasto e di tale spettacolarità.
    E, per di più, l’opera era integrale. Ciò perchè su talune critiche (evidentemente di laudatori dell’attualità pesarese) si legge che l’attuale edizione festivaliera è integrale, cosa che nemmeno le precedenti edizioni pesaresi erano state. Balle. Il buon vecchio Zedda aveva diretto tutta l’opera, che, infatti, durava circa 4 ore oltre intervalli. E per fortuna De Ana faceva effettuare cambi di scena a vista, senza necessità di intervalli, se no, chissà quanto sarebbe durata.
    Ma quelle 4 ore e più erano tracorse veloci ed alla fine eravamo tutti ad applaudire entusiasti.
    Il cast non sarà stato epocale, ma funzionava (soprattutto il reparto maschile). Secondo me, gran merito era del direttore che aveva effettuato una vera concertazione di una partitura che conosceva a perfezione. La Semiramide della Tamar era di tipo diverso da Dame Joan, con la voce più scura, ma a me, dal vivo, nel palazzetto dello sport pesarese adibito a teatro, non era dispiaciuta. Meglio di altre sentite dopo.
    Poi Pesaro, come si è già scritto, ha iniziato a produrre delle grandi c…..e dal punto di vista delle regie (sul canto taccio…).
    La successiva edizione con regia di Kaegi da me poi vista a Torino era di rara bruttezza, tanto brutta quanto bella era stata la precedente. Scena unica ispirata alla sala controllo di Dottor Stranamore di Kubrik… Meglio lasciar perdere. Però Darina Takova, come protagonista, non era affatto male, brava e pure bella.
    E pensare che anche a Torino la precedente edizione dell’opera poteva contare sulla celebre messa in scena di Pizzi. Per fortuna è stata filmata. Quella era bella. Con presupposti e mezzi visivi diversissimi da De Ana (e soprattutto con scelte cromatiche opposte, nell’un caso la scena era tutta bianca, nell’altro tutta nera) Pizzi rendeva appieno pure lui la monumentalità dell’opera.
    Sul tubo si trovano entrambe (l’edizione pesarese nella ripresa del 1994 diretta da Norrington).
    https://www.youtube.com/watch?v=X6FMyV0SjtU
    https://www.youtube.com/watch?v=_5sJe7KuMg4
    Ne consiglio la visione come antidoto agli attuali orrori pesaresi.
    La Ricciarelli e la Gasdia non saranno state proprio le protagoniste ideali, ma col senno di poi, dopo aver sentito ciò che ci è toccato sentire in tanti ruoli Colbran….
    “Ich habe fertig”, come diveva il noto melomane sfegatato Giovanni Trapattoni. E chiudo con un bel W ROSSINI

  10. La questione è aperta e non credo possano esistere risposte e soluzioni definitive. Credo siano ammissibili e assolutamente legittime sia scelte tradizionaliste che di grande innovazione: converrà di volta in volta valutare senza pregiudizi i risultati ottenuti. Personalmente non sono contrario a vedere regie d’impianto tradizionale, anzi ritengo che vadano periodicamente riproposte almeno per dare l’idea ( per approssimazione ) di come l’opera fosse stata originariamente concepita. Così come escludere la sperimentazione, anche la più radicale, credo sia tutto sommato impossibile. È nel DNA della cultura occidentale – ed è stata la sua forza – provare, sperimentare, oltrepassare limiti e destrutturare codici e paradigmi. In questi giorni a Bayreuth stanno proponendo un Tannhauser di radicalita’ registica assoluta. Sia per l’ambientazione ( un gruppo di guitti che bazzica Burger King e periferie ) ma soprattutto per la struttura narrativa ( ad esempio ,nel 2 atto, la proiezione di filmati narranti una storia inventata ex novo giustapposti al palcoscenico in cui si rappresenta Tannhauser in modo tradizionalissimo: a un certo punto le due trame convergono e i personaggi del filmato – in abiti contemporanei e molto trasgressivi – irrompono realmente nel bel mezzo della disputa dei cantori, dove tutti sono in costume medievale e pervasi da un’aura di rispettosa convenzionalità: assolutamente discutibile, certo, ma anche irresistibile e anche con non peregrine motivazioni drammaturgiche. L’ho trovata una delle regie più discutibili, infedeli, sovversive ma anche affascinanti degli ultimi anni. Mentre ho trovato noiosissima, per rimanere a cose recenti, la recente regia dell’Equivoco Stravagante al ROF , molto rispettosa, molto tradizionale ma anche molto inerte e prevedibile.

  11. Mi costa parecchio andare a rivangare questa Semiramide, perché in un primo tempo, dopo due ascolti dal vivo, avevo sperato di riuscire a dimenticarla, quasi non fosse mai esistita. Poi però sono capitato su queste pagine e voglio provare a buttar giù qualche riflessione, chissà che non mi aiutino a fare ordine in testa.

    Mettere in scena Semiramide richiede di aver piena consapevolezza di che cosa si va a mettere in scena. Semiramide è “l’opera” di Rossini, la summa di un’esperienza, l’opera della vita, o almeno della prima vita di Rossini, che con Semiramide si conclude. Semiramide è il trionfo della forma, come un poema epico, fatto dalle sue formule, dai suoi epiteti che ne dettano il procedere e ne scandiscono il ritmo.
    Quando Vick, intervistato ai microfoni di Radiotre, dice che l’opera ha una drammaturgia debole, dimostra di non aver capito il senso di mettere in scena Semiramide, o peggio ancora, forse, confessa di essere andato a cercare in Semiramide qualcosa che né a Rossini, né al suo librettista né al pubblico del 1823 interessava trovare. Perché non si va nell’Iliade, nell’Eneide o nel Furioso a cercare le sottigliezze da psicologia spiccia, i complessi edipici (o di Elettra), le immagini chiave, gli orsetti di peluche, i lettini azzurri. Il “bello” è che queste cose non scandalizzano più nessuno, le abbiamo viste in tutte le salse, in qualsiasi opera. Deprimono piuttosto, intristiscono.

    E poi c’è Mariotti che presumo piaccia perché non crea disastri tra buca e palcoscenico, perché tutti vanno insieme. Però Mariotti gioca con la partitura come un disc jockey, si diverte a rallentare, a correre, ad alzare e abbassare il volume, alla ricerca di non chissà quali effetti, forse romantici, forse veristi, forse non lo sa nemmeno lui. E quindi ci ritroviamo i rallentando infilati non si capisce per quale criterio, come piovessero, a partire dalla Sinfonia, che però si conclude con un chiasso infernale in cui nemmeno si percepiscono i disegni delle singole parti. La stessa cosa più o meno si ripresenta alla fine di ogni pezzo, dopo cabalette che procedono più lente dei cantabili: nelle code, appena le voci smettono di cantare, il volume decuplica e il ritmo aumenta.

    Del cast, sinceramente, non ho proprio voglia di parlare. Dico soltanto che non riesco davvero a comprendere gli entusiasmi per la seconda donna, una voce che cambia timbro ogni tre note, che non gira, che sbraca continuamente e che arriva al secondo atto e al finale berciando come la peggiore Santuzza del peggior teatro della peggiore provincia. E dire che bastava ascoltare la Molinari nel Demetrio e Polibio il giorno dopo, per sentire una voce di mezzo che “canta”.

    Dai gente… Poi ognuno ascolta quello che vuole e batte le mani per chi gli pare, per carità… Ma per chi ha una vaga idea di cosa dovrebbe essere la Semiramide sono cazzi veramente amari.

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