Don Carlo alla Scala

Escurial_palaisUna serata dominata dalla noia e dal cantare male è stata quella che ha inaugurato la ripresa del pallido Don Carlo firmato qualche stagione fa da Stéphane Braunschweig. Anticipo la conclusione: la serata ha avuto un certo valore soltanto nella prova di René Pape, mentre il resto impone parecchie ore di ascolti riparatori. Un solo applauso vero e sentito all’aria di Filippo II, uscite al minimo sindacale con dei bu sonori onestamente guadagnati dalla signora Serafin ed un accenno di riprovazione per la signora Gubanova. Possiamo parlare di esito positivo dopo le catastrofi verdiane primaverili e l’esito catartico del Ballo? Non so, fate voi, dipende da dove fissate l’asticella delle vostre pretese. Una riflessione si impone però, alla quinta opera verdiana messa in cartellone dalla Scala ( un progetto al limite dell’autolesionismo ) ma ennesima di questo bicentenario che voleva essere celebrativo e che finirà invece per decretare morte e sepoltura del canto verdiano dopo quello wagneriano. La messe di recite di opere verdiane e wagneriane che come un ‘epidemia mondiale ha investito i teatri di tutto il mondo in questi mesi, è una dimostrazione di rilevanza statistica oggettiva che non si può tacere. Si stenta a radunare il cast anche per una sola grande produzione degna di questo nome, ci si trova in affanno a raggiungere la soglia della dignità professionale in ogni occasione, eppure per ogni dove si va in scena con opere per le quali i cantanti mancano. Lo stato dell’arte lirica è questo. Si vuol fare e si fa lo stesso questo repertorio, con un’alacrità ed un’intensità che hanno del maniacale, in preda ad un generico slancio di massa a cogliere un momento che è evidentemente commerciale nel migliore dei casi, ma sicuramente non artistico, per celebrare chi in questo momento può essere onorato diffusamente soltanto dai documenti fonografici passati. Se pensate che voglia ricadere nel dualismo cultura vs business per parlarvi dell’etica dell’arte o della cultura siete fuori strada. Espongo solo la mia perplessità anche un po’divertita circa il fenomeno sociale, che è innegabile abbia i suoi lati assurdi. Un po’ come aveva ironizzato l’Ariosto, ognuno di noi rincorre i suoi fantasmi: oggi mezzo mondo della lirica insegue quelli inafferrabili di Verdi e di Wagner, e nella follia di fare qualcosa per la quale non si è all’altezza, finisce per celebrare, o meglio, rappresentare se stesso e basta. Cercando di resistere alla noia di quel primo atto soporifero pensavo a Lissner, alla sua rocambolesca stagione verdiana costellata di insuccessi o comunque di serate spente. Forse bastava limitarsi al Falstaff e sarebbe stata anche una celebrazione riuscita, o quantomeno realistica. Ed invece no, in preda a quello slancio di cui vi parlavo prima ha voluto anche lui fare qualcosa di speciale, come tutti, al pari di quelli di Novara con Dario Argento, e il suo cavallo morto per traverso nella scena. Pensavo anche ad altri teatri, dal Don Carlo di Salzburg, all’Aida di questi giorni a Parigi, alla Forza del Liceu già floppata all’Operà, ma anche al Naufragio di Bayreuth, la turistica Arena, sino alle velleità dei più piccoli come Aslico che si lancia addirittura in Otello.Ognuno ha voluto ed avuto il suo cavallo morto, noi a Milano una piccola scuderia. Un fare dagli esiti parzialissimi è la cruda realtà, ed il lacerto di cui ci dobbiamo accontentare è sempre più piccolo, come in Scala ieri sera. I meccanismi compensatori creati dalla cultura wagneriana e di cui la nostra Pasta ci ha più volte parlato non si innescano alle prese con il vecchio Verdi, anzi, pare che lui abbia predisposto l’architettura perfetta per smagare le velleità, i compromessi intellettuali, le manipolazioni di cui la nostra lirica odierna di serve per tirare avanti. O si canta, o non si va avanti. Ogni sera, impietoso, il celebrato ci ricorda che non siamo alla sua altezza, come ieri sera.

L’allestimento di Braunschweig, insignificante alla prima del 2008, è rimasto tale a cinque anni di distanza. Scenografie minimaliste decisamente brutte, il vuoto in scena, un autodafé che soltanto il pessimo Stein di quest’anno a Salzburg è riuscito a superare, costumi storici belli ma mica molto adeguati allo skyline di alcuni protagonisti anche in questa ripresa come alla prima, assenza di regia, dove l’atto più frequente è quello di stare seduti con le mani tra i capelli oppure tutti fermi allineati al proscenio. Poca cosa per alimentare attivamente la serata. A tale insignificanza ed apatia ha corrisposto alla perfezione la direzione di Fabio Luisi, che è riuscito a rendere Don Carlo un ‘opera noiosa, a tratti anche soporifera. Potrei dilungarmi nelle spiegazioni di dettaglio, ma basta per tutti l’intero secondo quadro del primo atto, o la scialba scena dell’autodafè, a dare la cifra della serata. Un primo atto interminabile, quasi geologico, dove non ci sono mai stati offerti né i climi del Gran operà, né la varietà di situazioni che l’articolata drammaturgia verdiana mette in scena. Commenti, accompagnamenti, tutto annacquato in una minestrina inodore incolore ed insapore.e se questo è il biglietto da visita offerto da uno dei candidati alla direzione musicale della Scala, pare anche caldeggiato dall’orchestra, abbiamo già capito dove andremo a finire. Consolarsi con il dato oggettivo che “tenga insieme” le cose, che non sia fracassone, o che vada  tempo ( e non sono del tutto d’accordo con queste definizioni) o che comunque sia meglio di certi che sono comparsi su quel podio in occasione degli spettacoli ultimi scorsi, mi pare poca cosa come target di chi aspiri ad un ruolo così importante ed oneroso. Nemmeno la routine dei Molinari Pradelli o dei Patanè viene ritenuta basilare per quel podio, e siamo alla cartina tornasole del nostro presente scheletrito.

Ciò premesso, arriviamo al cast vocale, nota dolente di questa produzione, il cui minimo comun denominatore è lo stesso per tutti: mai la voce avanti, mai sfogata, mai a fuoco, il che la dice lunga sul livello tecnico corrente oggi qui come ovunque. Il loggione ha decretato a voce un certa soddisfazione per la parte maschile del cast, giudicata superiore a quella femminile. Don Carlo era il signor Sartori, re indiscusso della cosiddetta “correttezza” tenorile di questi anni recenti. La voce è apparsa più ridotta rispetto al passato, gli acuti volutamente molto “chiusi” per raccogliere il suono ma inesorabilmente indietro e senza squillo. Il centro rimane sonoro, ma la fibra la fa da padrone. Non bercia mai Sartori, non è mai gigione, ma non per questo soddisfa, perché il fraseggio è monocorde, il personaggio sempre spento e dimesso e la scena nemmen lo aiuta; uno sconfitto che non riesce mai ad imporsi nemmeno per i lato baldanzosi della giovinezza, dello slancio amoroso o della retorica politica. Si accetta ma non convince e mostra ormai segni di usura timbrica. Il Marchese di Posa era il signor Cavalletti, ex accademico della Scala e, quindi, giovane beniamino di casa. Tra ciò che vuol fare e ciò che realmente sa fare corre una grande differenza fatta di lacune tecniche e di dote naturale limitata. Forse l’esperienza e lo studio lo miglioreranno ( la Scala ci propose in origine il signor Jenis che non cantò affatto meglio..), ma ora come ora, soprattutto in un grande spazio come quello scaligero, Verdi è off limits per lui. La sua immaturità si è colta in primis nella limitata ampiezza della voce, ora presente ora assente, come al terzetto d’entrata, alla scena del giardino o al quartetto del terzo atto, ma soprattutto alla grande scena con Filippo, dove era in debito di autorevolezza e presenza. Gli acuti indietro, i piani smaccatamente falsettanti, non hanno giocato a favore delle sue intenzioni di fraseggio. Il momento migliore è stato certamente alla scena finale, la prima parte in particolare, complice l’architettura della scena ( una sorta di scatola scenica entro la quale si svolge l’azione ) che ha agito come cassa armonica della sua voce. In generale, comunque, la sensazione di una prova che ha funzionato solo a tratti proprio perché il suo canto è discontinuo anche all’interno della medesima frase. Il migliore in campo è stato il signor Pape, come anticipato. Ha cantato con la sua voce, solo qualche suono gonfiato per cercare quel volume che nella sala del Piermarini, ben più ampia dei teatri tedeschi ove ha costruito la sua carriera, gli fa difetto, cercando un fraseggio puntuale e vario ( a differenza della brutta prova offerta a Monaco di Baviera e che recensimmo a suo tempo). Va a suo merito l’essere arrivato con la parte rispolverata curando meglio il dire ed anche il suono. Ha cantato abbastanza bene la scena con Rodrigo, con autorevolezza e senza gigionate e soprattutto la grande scena solistica, mostrando una varietà di intenzioni musicali, tutte di cifra lirica ed intimista, che qui in Scala non avevamo mai udito. Gli acuti restano oggettivamente brutti, sforzati ed indietro, mentre quando ha voluto gonfiare il suono per essere più adeguato al momento drammaturgico, nella fattispecie la scena sulla piazza di Nostra Dona de Atocha, a cominciare dall’incipit “ Nel posar sul mio capo la corona” è suonato invece sgangherato e nemmeno a posto con l’intonazione. Di gran lunga il migliore in campo comunque. Peggio il comparto femminile. La signora Gubanova ha confermato l’impressione data nel Nicklausse e non quella di Wakuere. Voce ovattata, di volume modesto, perfettamente indietro ed udibile sono in zona medio acuta, ha cantato una scena del Velo piuttosto rozza, con un’esecuzione dilettantesca delle fioriture ; una scena del giardino assai poco plausibile per la mancanza di mordente ma anche per l’incapacità vocale di fare da pedale, ed un Oh don fatale in salita per la povertà di legato e suono, condito da ridicoli movimenti di regia ( due passi a destra e canto-due passi a sinistra e canto- due passi a destra e canto…) Taccio degli acuti estremi e della dizione incomprensibile. Bastava lasciarla nel suo magma vocale russo e tedesco per renderla accettabile al pubblico italiano, le perdite sarebbero state minimizzate. Ora si può dire che il velo sul suo reale valore vocale sia caduto davanti al pubblico milanese che l’aveva molto apprezzata al debutto. La signora Serafin è stata una Valois scenicamente ideale, vocalmente improponibile per via della sua voce fibrosa in ogni zona e soprattutto per l’insipienza nel “girare” la voce. Il disastro che si intravedeva al “Non pianger mia compagna” si è manifestato in tutta la sua drammatica evidenza al quartetto del terzo atto, nell’aria del quarto e nella tragica esecuzione del duetto finale, dove ha fatto sentire una serie di miagolii, stonature, fissità ed anche urla. Pessima davvero. Un tempo pubblico amico e clacquers sapevano che il silenzio in certe circostanze era un grande risultato. Oggi invece si grida “Brava” dopo un’esecuzione maldestra, e perciò si innescano le contestazioni all’uscita singola che peraltro avrebbe meritato nel corso della serata.  E come lei l’Inquisitore di Stefan Kocan, basso solo nominalmente. Il Conte di Lerma, la Voce dal Cielo ( che pareva cantasse dalla Stazione centrale tanto era lontana ) ed il Paggio in linea anche loro con le prime parti: forse qualcosa di meglio si poteva trovare.

(PS Mentre scrivo questa recensione Rai3 racconta di un generoso successo per tutto e tutti A me non è parso esattamente così, ma anche i giornalisti hanno …l’asticella della sufficienza posizionata molto molto più in basso della nostra e di quella che per decenni si è usata nei teatri d’opera. Gli applausi sono iniziati mentre scendevo le scale del loggione, e tempo di arrivare in fondo erano già terminati. Aggiunti altri 200 secondi di festa per le celebrazioni verdiane!)

Consoliamoci !

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13 pensieri su “Don Carlo alla Scala

  1. Encomiabile lo sforzo di donna Giulia di raccontare quello che in una serata normale alla scala di un tempo, sarebbe finito in un pandemonio. Ovvio perchè oggi non esiste teatro che non sia ridotto a esecuzioni da oratorio.

      • ma no! in verità è che amo molto l’edizione francese del don carlos l’esecuzione diretta da abbado , però, mi convince solo in questo finale che trovo totalmente struggente e crepuscolare forse la pagina più “disperata” che abbia mai composto Verdi. Non trovi?

        • Io invece prediligo la versione in 4 atti – l’ho già detto mille volte e chiedo scusa se mi ripeto – quella rivista da Verdi senza gli orpelli del grand-opéra. Trovo, però, l’edizione DGG di Abbado (quella in studio che ripropone la versione Modena 1886 in 5 atti, ma curiosamente tradotta in francese) davvero scadente, a cominciare dalle orribili pronunce di Domingo, Nucci e Freni. Occasione persa. Il vero Don Carlo di Abbado è il live scaligero. Splendido.

  2. Sono d’accordo con la Giulia nel volere e dovere
    salvare il Re Filippo di Pape, che, rarissima cosa
    oggigiorno, e’ parso migliore rispetto alle ultime
    sue prove, parlo ovviamente di quelle da me ascoltate.
    L’unica cosa da salvare, il Re Filippo di Pape, salvare,
    non esaltare eh, di questo Don Carlo alla valeriana.
    L’unica. La Ricciarelli e Domingo li ritengo non piu’
    che una Ricciarelli ed un Domingo in declino, la qual cosa,
    in parole povere significa : dei poveretti.
    Ma se cantano male, ma male! Ma male!! E’ una pieta’.

  3. caro billy ho risentito recentemente quel don carlo in francese. Il tempo e’ galantuomo e ad ogni ascolto salvo qualcosa d più d quella registrazione ma Fleta ha ragione Domingo e Ricciarelli erano molto spenti. Lui pur con qualche défaillance dovuta immagino a scarse prove e superlavoro il 7.1.1978 alla Scala era stato molto più vigoroso smaltato e vario. A Roma Katia Ricciarelli aveva forse fornito la sua ultima performance di ottimo livello (direi da sette) anche perché l’acustica del Costanzi la favoriva rispetto a quando la ascoltai nella grande aria alla Scala nel 1979 dove risulto’ corretta ma soverchiata dall’orchestra.-

    • egregio alberto, per una volta concordo.
      Domingo per un lungo periodo ha cantato troppo.
      Lo si sentiva bene anche su vinile – il Ballo del ’75, dove si sente lo sforzo e che, comunque , non è per lui, c’è di molto ma molto meglio.
      Ricordo poi una Aida del 1989 (14 anni dopo !) del Met, (che vidi a notte tarda in TV a Maastricht, dopo una giornata di lavoro), dove aveva un copricapo a mitria in testa che riuscì a farmi ridere nonostante l’ora e l’amore per quell’opera, esecuzione corriva, di routine, da “sun chi mi”, senza rendersi conto che era già cotto.
      Un declino, violento e evidente nonostante il sostegno dei media.
      So che, quando canta, il giorno dopo non apre bocca per far “riposare” la voce, poveretto…..
      Quanto alla Ricciarelli, vocino pulitino ma senza proiezione, era quasi sempre coperta dall’orchestra, quasi una cantante da salotto – pianoforte e via -, sopravvalutata e, anche lei, declinata rapidamente senza troppi rimpianti, almeno da parte mia.
      p.s. concordo con Giulia, la lirica di oggi non ha la caratura per celebrare correttamente chi l’ha resa immensa, è capace solo di autocelebrarsi.
      con rispetto.

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